Quando la vidi per la prima volta mi diede l’idea di una tenera vecchietta dalla chioma grigio argento, magra la schiena curva che faticava ad alzarsi dalla sedia. Quanti anni aveva ormai? Più di ottanta, ben portati. Entrai nella sua grande cucina, il caminetto acceso e sul tavolo un’enorme vaso pieno di sedani e carote invece dei fiori. Quest’immagine mi colpì subito, pensai che rispondeva al suo essere pragmatico e poco romantico. In auto, Orietta non aveva fatto altro che parlarmi di lei: “Capisci? E’ una donna dalle mille sfaccettature, una che ha fatto la guerra nel senso che è stata partigiana, poi è stata la moglie di un senatore, ha fatto politica, ha scritto molti libri e poi ha tradotto le poesie di questo poeta turco Nazim Hikmet, te lo ricordi? Ti ho regalato un suo libro qualche tempo fa…”
Io me lo ricordavo Nazim Hikmet e le sue splendide poesie d’ amore, mi erano subito entrate dentro e avevo pensato che doveva essere stato meraviglioso conoscere un uomo simile, che a me ‘sta cosa non era mai capitata. E neanche ad Orietta. Ma non le avevo detto niente per non compiacerla, in quel periodo, presa com’ero dal mestiere della vita e dalle sue difficoltà in corso d’ opera, mi restava difficile ammettere tutto, persino che mi piacesse il suo poeta e la storia di Joyce Lussu, di cui, al di là dei suoi trascorsi da partigiana e politica, mi avevano attratto le sue origine inglesi e il fatto che si sentisse sempre un pesce fuor d’acqua in questa regione. Un po’ come la sottoscritta almeno, anche se io non potevo vantare nessuna origine esogena. Le cinque antenati inglesi che a inizio ottocento arrivano e sbarcano come marziane nella campagna vicino a Fermo, era la storia più bella di tutte, poi Joyce l’aveva buttata sul politico, ci aveva aggiunto di suo raccontando gli anni da partigiana sulle montagne e la lotta tra fascisti e antifascisti, tra cattolici e anticattolici, storie importanti che erano state la base della mia giovane esistenza, ma anche simili a quelle di mio nonno Lazzaro, anarchico anconetano, che mio padre e mia zia amavano raccontarmi fino allo sfinimento.
Perciò mi sentivo una veterana rispetto alle mie amiche, eccitate e inorgoglite da questa nuova e importante amicizia, al contrario di loro non sentivo nessun ardore, nessun fremito sotterraneo.
“Mi raccomando – mi fa Orietta, forse intuendo il mio stato d’ animo – è anziana e dobbiamo avere tatto – mi dice questo muovendo la mano destra in modo sussultorio ondulatorio, fa sempre cosi quando comincia un discorso serio – Joyce Lussu è una donna di un certo spessore, ma anche di una certa età e non sarebbe gentile da parte nostra contrariarla”.
“Ti sbagli– ribatte Teresa, l’ amica più grande del gruppo e anello di collegamento con Joyce – è una donna molto forte, figurati che solo un mese fa ha tenuto testa ad un prete durante una conferenza, l’avessi vista non diresti così, lei adora i dibattiti, la gente vera”.
“Sì, sì – fa Simona, finora quella più silenziosa di tutte – però credo che Orietta abbia ragione, in fondo è pur sempre una donna anziana”.
“Lei odia essere trattata cosi, non fatelo”. – ammonisce ancora Teresa.
“Da parte mia starò sempre zitta ok? – dico io infine, la faccia incollata al finestrino dal quale ammiravo il mare grigio e imponente, le onde cosi alte che sembrava entrassero nell’A14 – cosi non sbaglio “.
“Noooo !!!- mi rispondono in coro – non fare cosi assolutamenteeeee!” – in verità mi stavano facendo diventare un filino nervosa – devi fare cosi e cosi – seguitava Orietta con il suo fare sussultorio ondulatorio – dire questo e quell’altro- e alla fine mi era venuto il voltastomaco, avrei voluto fermarmi e scendere in una piazzola o autogrill qualsiasi, prendere il primo mezzo che trovavo, salirci e chiedere un passaggio fino a casa. Magari un camionista! Ci avrei fatto un discorso più vero del vero, e non come con queste intellettuali sdrucite vetero-femministe-post-sessantottine, non con Joyce Lussu e le sue origini pseudo-nobili, il suo sprezzo del denaro e i suoi dogmi antiliberali. Era questo che volevano in fondo: vanificare la mia occasione di dire come la pensavo su molti temi, uno scontro leale ed aperto come si fa tra persone civili.
Ma quando finalmente le strinsi la mano e le dissi il mio nome, vidi i suoi occhi azzurri, profondi ed energici come il mare in tempesta di poco prima, fissarmi intensi, venni rapita dalla sua bellezza austera e la immaginai giovane, alta, bionda.
La immaginai viva e brillante e quel suo modo di stringermi forte la mano mi trasmetteva episodi della sua vita, e il suo modo di affrontarla.
“Che bello che siete qui, sono felice” e io mi accorsi di esserlo quanto lei, senza saperne il motivo, avrei voluto abbracciarla e baciarla e tenerla stretta a me a lungo, ma sapevo che non era avvezza a questo tipo di smancerie e mi trattenni. Ero commossa, stupidamente, dissi tra me e me, davvero non ne intuivo il motivo.
Ma Orietta era di tutte la più nervosa, parlava e straparlava e descriveva il viaggio e chi ero e perché eravamo li, e che cosa faceva lei e da dove veniva. Poi, non paga, ha cominciato ad elogiare il posto e la casa e i mobili e le suppellettili fino ad esclamare con troppa verve: “Che carino qui, mi piace molto! Deve essere bello vivere tra i ricordi” – ed è stato allora che ho visto Joyce mutare di colpo espressione, fare un sospiro, fissarla dritto negli occhi e ribattere: “Non sono in cerca di complimenti”.
Ho visto Orietta farsi silente, le labbra che ancora fremevano e i suoi occhi che fissavano Joyce frastornati. Come un pugile suonato. Teresa ha detto: “Joyce, guarda che Orietta te lo diceva con il cuore”.
“Non so se fosse il cuore, ma vorrei che le parole non fossero cosi a mitraglietta, lasciati respirare, lascia parlare anche gli altri, sennò è un monologo e neanche tanto attraente”.
Toucheè, pensai io divertita.
“Tra l’ altro ti rispondo che pur amando la mia casa, non ho una passione per gli oggetti e la casa in generale, non sono possessiva, e quindi tutto questo farfugliare su quanto vedi qui è fuori luogo. Capirai l’anno scorso volevo venderla! Eppoi mi hanno rubato tutto, circa tre anni fa– sospirò – pazienza, non sto a piangerci sopra”.
“Non me l’avevi detto che avevi subito un furto – fa Teresa, Orietta era ancora ko.- in effetti adesso che me lo dici, molti mobili che conoscevo non ci sono più, pensavo li avessi portati a Roma”
“Non te l’ho detto perché non è importante. Sono una persona libera dal possesso materiale, lo sai”.
Libera dal possesso materiale… Quante volte avevo sentite questa frase? Di colpo mi vengono a mente tutte le storie sull’essere e l’avere e le guerre che l’uomo scatena, sermoni degni della santa Inquisizione: “Si sono inventati Dio per derubare gli uomini! – gridava mio nonno, agitando il bastone. Le religioni sono l’ oppio dei popoli!”
Poi la voce di Joyce mi ridesta dal flashback.
“Attaccarsi alle cose, significa esserne schiavi. L’uomo in fondo uccide per due motivi: la religione e i beni materiali.”
Orietta annuiva, Teresa ha seguitato, serafica: “Devo dire che alle mie cose invece sono molto attaccata, agli oggetti di famiglia voglio dire, ai miei libri… la cucina, in questo Joyce mi sento diversa da te anche se per molte altre cose abbiamo affinità di vedute.”
“Sono tutti oggetti che puoi rifarti in qualunque momento, sbagli ad attaccarsi alle cose, perché non te le puoi portare via” – fa Joyce.
“Beh no, nei libri ci scrivo appunti, ad esempio, e qualche volta vado a rileggerli. Appunti che ho scritto anche trent’anni fa… Li lascerò a mio figlio e ai miei nipoti, come un messaggio in bottiglia, mi scoccerebbe molto che qualcuno o qualcosa mi li portasse via”.
“E’ inutile illudersi: un terremoto, un incendio, un ladro e tac non hai più niente! Attaccarsi ai beni materiali è insano , ciò che conta è la vita delle persone”. – ripete Joyce concitata.
“La vita di adesso, non quella dell’aldilà di cui non abbiamo nessuna prova.”
Ad un certo punto mi sono persa nei miei pensieri e ridestata solo quando ho sentito Joyce alzare la voce e dire a Orietta: “Tu la mangi l’ anima? la tocchi? l’ hai vista?”. Orietta aveva la madre gravemente malata e sebbene si fosse riavvicinata alla religione non osò replicare.
E’ stato lì che ho aperto bocca, sospinta da non so quale afflato e detto: “L’ anima la senti”
silenzio – e io ancora: “C’è poco da dire o la senti o non la senti, poi voi chiamatela come vi pare, Dio la Madonna, Visnù, i neoplatonici, il nulla, si anche quello è un credo, e non rompetemi le palle per favore, che anche i nullisti mi sembrano un branco di fanatici integralisti e io ne so qualcosa se permettete.”
Gelo tra le mie amiche.
“Sei tu che parli, non la tua anima, è la tua intelligenza, la tua mente, sbagli a pensarla cosi”. Mi risponde Joyce con calma glaciale.
“Forse, ma mi piace chiamarla anima se non vi dispiace, è più poetica. Eppoi basta con queste idolatrie del nullismo, ognuno fa quel che gli pare. Tu pensi che non ci sia niente? Ok! Un’altro no, ok? Ci deve essere assoluta libertà, nessuno critica il fatto che tu Joyce non senti niente, anch’io per certi versi sono perplessa, ma credo che la religione serva a consolare l’uomo dalla paura di un dopo di cui non abbiamo nessuna certezza. Se questo lo fa star meglio, perché devi arrivare tu a rovinargli la festa? Cosa diceva Leopardi? A volte l’ illusione è realtà e quello che sembra realtà è illusione”.
“Buono quello! Leopardi!”
“Non mi toccare Leopardi per favore! Ci manca solo che lo chiami” sfigato” e poi mi alzo da questa sedia. Io voglio essere libera di sentire ok? Libera anche di consumare come di non toccare niente. Il tuo approccio verso il materialismo e’ clericale, oltre che asfissiante”.
Non glielo avessi mai detto. Temevo mi buttasse fuori. Invece fa sfregando le mani:
“Ragazze queste belle discussioni mi hanno messo appetito, che ne dite di pane e salame? Prendete del vino dalla madia per favore e dei bicchieri, faccio anche un pinzimonio”. Prende le carote e il sedano dal vaso nel centro della tavola e le sciacqua sotto il rubinetto.
Poi mette una tovaglietta a quadri bianchi e rossi e dispone dei tovaglioli. Teresa versa il vino rosso nei bicchieri e ce li da sorridendo: “Un buon bicchiere per brindare all’incontro, Joyce – solleva il bicchiere e fa “salute!”–
“Salute!” – rispondiamo in coro.
“Vedete, per me la compagnia delle persone, le persone stesse sono la cosa più importante al mondo, io ho lottato per un mondo più giusto, e anche se la guerra è finita da un pezzo grazie al cielo, seguito sempre a lottare. Gli uomini, non dimenticatelo, ancora non hanno imparato che sono sulla terra per caso, e che la vita è il bene più importante. Io amo le persone semplici e vere – rivolgendosi a me – e non in modo particolare gli intellettuali borghesi, mi fanno venire il nervoso”. Ho cominciato a tagliare il salame e poi a distribuirlo alle compagne. Il pane sapeva di cose di una volta, autentiche, e il vino pareva quello del contadino di 30 anni fa, un filino bisolfito, ma buono.
Pensai a come doveva essere semplice la vita un tempo e come il mondo si dividesse in buono o cattivo senza filtri e variazioni di colore. Bianco o nero, basta. Non come ora, con le mille variazioni di tono, senza distinzioni né colpe e responsabilità. Era più semplice ma anche più infinitamente dura, ma era dura anche adesso, anche se non sapevo spiegare come.
O forse si. Forse avrei potuto, ma più avanti, dire la mia su molte cose che in quell’istante non riuscivo a spiegare. La durezza l’avrei contrapposta alla dolcezza della vita, all’amore che non ho ricevuto e quel poco che ho dato e che ho dipanato, come una matassa, su persone, animali e cose senza aspettarmi mai nulla e soprattutto senza fondare partiti o movimenti, era cosa mia sola e non degli altri e gli altri non mi appartengono né sento di guidarli per chissà quale via. L’ amore. Forse è solo questo, semplicemente, quello che lei e la sua generazione hanno finito per non esprimere veramente. Era un mondo talmente duro che temevano di esserne annientati. E allora ho pensato che ero io la semplice e non loro, loro facevano solo finta di esserlo. Erano loro i veri intellettuali.
Al ritorno in auto mi sono messa a cantare, Orietta e Simona intonavano un coro, “la chiamavan bocca di rosa metteva l’ amore metteva l’ amore, la chiamavan bocca di rosa metteva l’ amore sopra ogni cosa…” e mi sentivo libera e leggera, felice in fondo di essere nel mio secolo, nella giusta rotta che era la mia, senza più saggi o maestri che mi dicono ciò che è buono o cattivo. Felice di fare la mia strada, ho salutato mentalmente tutti: Joyce, mio nonno, mio padre e mia zia. Tutti coloro che facevano parte del mio passato, li ho salutati con le parole di un poeta persiano, che avrebbero sicuramente apprezzato.
“La fuori. Oltre a ciò che e’ giusto e ciò che è sbagliato c’è un giardino. E’ la che vi aspetterò “
Dialogo inventato tra me e Joyce Lussu che non è mai avvenuto purtroppo, perché rifiutai di conoscerla, allora, quando le mie amiche mi invitarono ad andare a San Tommaso.
Joyce Lussu è un’icona del Novecento Marchigiano ed Italiano, scrittrice e saggista, politica. Tradusse in Italiano tutte le opere di Nazim Hikmet e di altri poeti stranieri. Conosceva molte lingue, oltre all’inglese, ovviamente. Studiò in Germania ad Heildeberg filosofia ai tempi (purtroppo) di Heidegger, poi alla Sorbona di Parigi e infine Filologia a Lisbona. E tutto questo nei primi anni del secolo scorso. Sposò il senatore Emilio Lussu. A quei tempi, subito dopo la guerra, essere un senatore era un grande merito.