Non deve essere stato semplice per Giambattista lasciare queste vie e questi luoghi a lui cari, e soprattutto non deve essere stato facile lasciare i suoi genitori e il natìo borgo selvaggio per avventurarsi in quel di Napoli.
A Jesi, una piccola cittadina che viveva di agricoltura e piccola industria, Giambattista doveva essere stato molto amato dai suoi genitori che, prima di lui avevano tentato di avere altri bambini, tutti tragicamente morti. Era stato cominciato alla musica suonando in chiesa e pare abbia dato prova di grande abilità già nel maneggiar il violino, che era un’arte largamente diffusa a Jesi dove vi aveva sede anche una fabbrica di codesti strumenti. Da cosa nasce cosa. Un figlio unico, di salute cagionevole, che sebbene provenisse da una famiglia modesta, il padre era un perito agrario e il nonno un ciabattino di Pergola che si era trasferito a Jesi, il cui padrino era il nobile Franciolini, e la madrina una Honorati, non rischiava di essere trascurato se davvero di lui si diceva avesse “ ” un ingegno non comune, vivacissima e meravigliosa inclinazione alla musica” come lo descrive Cardolo Maria Pianetti, quando lo presenta al Conservatorio di Napoli.
Giambattista Pergolesi , Jesi 1710 – Napoli 1736
Chissà come doveva essere stata la sua vita fra questi vicoli di Jesi, magari già strimpellava la spinetta? Avrà suonato il violino in uno dei palazzi dai grandi portoni, usi a far entrare le carrozze, dalle finestre alte che guardano la vallata ubertosa dell’Esino? O in qualche villa con parco nei dipressi?
la sua casa natale in Jesi
Può sembrar strano, in una società chiusa e un po’ stagnante dello Stato Pontificio, ma Jesi non era priva di cultura o , come dire, una città assonnata. Intanto vi era nato Federico II e secoli addietro si era contesa la palma della prima stamperia in Italia, in competizione con quella del Manuzio in Venezia . Quindi c’era una diffusione del sapere, nobili che andavano e venivano da Roma, Firenze o Napoli e fù uno di questi appunto a intercedere per il Pergolesi e a trovargli una sistemazione al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo nella città partenopea. Giambattista aveva sedici anni, era poliomielitico e claudicante, sicuramente non un robusto giovanotto.
caricatura di Giambattista Pergolesi ,effettuata da Pier Leone Ghezzi nel 1735.
Non è certo che pagasse il convitto, e comunque l’istituto non era per giovani abbienti, si barcamenava grazie alle donazioni dei privati.
Ma Napoli rappresentava comunque il clima giusto, anni dopo Rousseau dalla Francia, innamorato di Pergolesi – perché furono i francesi i primi ad esaltarlo – arriva a dire che “Napoli è la sola città in cui s’impara a comporre musica”.
Della vita di questo genio musicale si sa veramente poco e gli stessi francesi, avidi di notizie, se ne sorpresero. Cosi scrive il Radiciotti : “ Per lungo tempo quasi nessuna circostanza della sua vita fù nota con sicurezza: il cognome, il luogo, l’anno in cui aprì gli occhi alla luce, l’anno in cui esalò l’ultimo respiro, il conservatorio che l’ospitò, i suoi veri maestri, la malattia che lo trasse a morte, il numero delle sue opere…”
Si scopre infine che per mantenersi, dopo il conservatorio, diventa maestro di cappella presso qualche nobile napoletano, ma già al Conservatorio compone drammi sacri e solo quando si diploma, a 21 anni, compone la prima vera opera, La Sallustia e la sua prima rappresentazione in un teatro. Subito dopo Lo Frate ‘nnamorato che ha un grande successo di pubblico.
Ho in mente la Serva Padrona e penso alla Napoli chiassosa, urbana, dove convivevano e convivono ancora, arie profumate e puzzolenti , marine e terrigne assieme sotto il Vesevo, come lo chiama il Leopardi nella Ginestra, ovvero il Vesuvio. La Napoli dei lazzaroni e dei pulcinelli, e penso ad un altro Giambattista, nato un secolo prima, che scrive fiabe in lingua napoletana, la Napoli di Basile, del “ Cunto de li cunti”, un mondo dell’assurdo, dove s’impara ad accettare e comprendere che il mondo è diritto e rovescio assieme. Solo qui Pergolesi poteva scegliere un tema simile, con delle arie simili, una serva che si fa impudente, allegramente accettata dal suo padrone e anche dal pubblico.
Eppoi la malattia, “ attaccato da tisicia con febre, fù mandato per guarirsi o migliorare alcun poco a respirare l’aere sulfurea di Pozzuoli, nel casino del Duca di Maddaloni, presso la Chiesa dè Francescani ove era mantenuto da questa illustre casa, assistito da quei religiosi e dai migliori medici di Napoli” ( G. Sigismondo) che lo porta alla morte a soli 26 anni. Compone, sul finire della sua vita, lo Stabat Mater . Un capolavoro: una musica intensa, avvolgente, bella quanto tragica.
La sua breve vita ricorda gli eroi romantici dell’Ottocento, penso a Keats e ancora a Leopardi, anch’essi cagionevoli di salute e per questo eterei, delicati e sublimi.
Pergolesi può essere considerato un preromantico , capace di penetrare nei recessi della natura, proprio in virtù di questo sentire la vita sfuggirle tra le mani, e per questo forse esprimerla meglio di altri, decantarla, sentirle gli umori e gli odori, e intensamente amarla ogni suo attimo. Un secolo dopo, anche Leopardi, marchigiano come lui, andrà a vivere a Napoli nell’ultima parte della sua vita. Un caso oppure Napoli era più viva e vera di tante altre città italiane ? Forse lo è tuttora.
Mi vengono in mente le parole della Ginestra, una delle mie poesie preferite : “anche tu presto alla crudel possanza /soccomberai del sotterraneo foco”.
Quale fuoco? Quello che ardeva nei loro spiriti? Il foco che sprigionava dai loro geni e li consumava più velocemente tanto da renderli “ più facili a guastarsi” come diceva Ruskin? Vittime dei loro caratteri e delle loro anime?
Che cosa ne sarebbe stato di questi spiriti se fossero vissuti oggi ?
Giacomo lo avrebbero sottoposto ad una terapia psicologica e definito “ bipolare”? Certamente avrebbe subito un intervento chirurgico alla spina dorsale e , nel suo ritorno alla normalità, la sua poesia ne avrebbe risentito ?
Pergolesi invece? Le ultime narrazioni sulla tisi risalgono a Thomas Mann e alla sua “ Montagna Incantata” dove gli ospiti di un sanatorio si ritrovano in cima alla montagna a respirare l’aria salubre per i loro polmoni marci, poi la malattia scompare, fortunatamente, dagli schermi dei computer sanitari. E Giambattista invece, cosa avrebbe musicato?
Domande senza risposta. Domande che non servono a nulla, mi dico, mentre passeggio fra questi vicoli di Jesi, mentre le campane battono le sei di un pomeriggio d’inverno. Jesi è bellissima in inverno.
Non so come ma improvvisamente penso a Hillman e alla sua teoria del dàimon : l’anima che sceglie , prima di venire al mondo, i genitori , il luogo e il tempo per poter espletare il compito per cui scende sulla terra e mi dico, concludendo il filo dei pensieri, che di questi tempi il loro dàimon, si sarebbe certamente adeguato.