le mie Marche
Paesaggi e ArchitetturaSenza categoria

Anche se l’atto di vedere dipende dai nostri occhi, spesso non vediamo. Proprio non ci facciamo caso. A volte sembra di utilizzare una sorta di traduttore automatico per cui non diamo mai il senso di ciò che vediamo, ci passa oltre, non si ferma. Tutto  diventa automatico,quasi  scontato.
E’ ciò che mi capitava quando vedevo la campagna delle Marche, la regione dove sono nata e cresciuta.  Un tempo, diversi anni fa, percorrere una strada che s’inerpicava tra le colline era per me qualcosa da evitare, preferivo le autostrade e le superstrade: veloci, pratiche e senza fronzoli, mi portavano diretta dove dovevo andare, da sola o in compagnia, sentivo la musica senza davvero ascoltare, ridevo e parlavo senza dare veramente significato alle cose che dicevo, la giovinezza della quale ero ammantata mi rendeva impermeabile all’ambiente, potevo essere ovunque ma non ero veramente da nessuna parte. Concetti come l’appartenenza, l’origine dei luoghi, non mi erano certo estranei ma erano talmente interiorizzati  da non rendermene veramente conto anzi, in seguito, cominciarono persino a starmi i stretti , come dei vestiti che non riescono più ad essere adatti ad un’anima inquieta che vuole percorrere altre direzioni.
Poi un giorno, che mai riuscirò a dimenticare, sono stata dotata della vista. All’inizio fù quasi uno shock e credevo di non sopravvivere alla cosa: l’Adriatico diventò non solo il mare dove mi ero gioiosamente tuffata per anni durante l’estate senza soluzione di continuità,  ma uno stato dell’essere: la sua ampiezza e colore, la sua placidità cangiante me lo facevano apparire un essere vivo, con cui dialogare e sentire cosa aveva da dirmi e così la campagna: un enorme mare verde ondivago e mutante a seconda delle ore della giornata.
Fù una straniera a compiere il miracolo. Ero una come tante e lo sono anche ora ma lei riuscì a togliermi quel velo  di banalità di cui siamo ammantati  fin da piccoli,  se proprio non veniamo coltivati con amore alla percezione, la sola che può illuminare ogni cosa che ci sta attorno.
– Lorenza – esclamava spesso energica  – queste sono le Marche!  Un paradiso, guarda!- eravamo verso Arcevia, dove lei si era comperata una casa  in mezzo al nulla, devo dire. Dopo anni di lavoro girando tutto il mondo, gestiva un’agenzia di modelli,  si era fermata qui, decisa a trascorrere metà dell’anno di quel che restava della sua vita, la migliore perché non c’è più fretta, non si corre, non c’è ansia e cominci davvero a gustarti le cose. Possedeva un Rodhesian Ridgeback, un cane adatto per la caccia ai leoni, sua figlia che abitava in Sud Africa lo aveva raccolto per strada –  laggiù ce ne sono molti –  e glielo aveva regalato. – Molto buona idea ! Cane  scaccia  cinghiali – diceva, anche perché il suo giardino non aveva recinto.
Fù così che cominciai davvero a vedere la mia regione: attraverso i suoi occhi. La distribuzione dei colori, le linee e le superfici, i chiaro scuri dei campi e dei boschi, l’orizzonte. Eravamo in auto e i suoi occhi luccicavano – Lorenza, Lorenza!  – la sua voce squillante ancora mi risuona nella testa – guarda! – mentre m’indicava il creato tutt’attorno: una valle di media montagna, un altopiano contornato da foreste, mentre la strada era dritta, solitaria e luminosa. La morbida luce estiva del tramonto  pareva accarezzare ogni cosa. Eravamo solo io , lei e il cane dietro, intente a raggiungere un paesino dell’entroterra che non mi ero mai sognata di conoscere. Magari preferivo la Toscana, la Provenza, Londra o Parigi ma ignoravo del tutto le mie Marche, volevamo assistere a un concerto di non so cosa, consigliati da non so bene chi.

Giunte alla meta  domandai – Chi suona? – incuriosita dall’immagine che mi si presentava davanti: una grande pianoforte nero a coda sotto dei riflettori ancora spenti, poggiato vicino  una grande quercia secolare in un immenso campo di grano appena falciato. – Non so!- mi rispose pronta nel suo italiano rabberciato, ci parlavamo in inglese per lo più, l’inglese ha questa capacità ormai di accorciare le distanze e ci va bene così  – Ma è uno moolto bravo! – e fa il gesto di baciare le dita, come se stesse assaggiando una leccornia – vedi quell’uomo laggiù? – indicando un signore abbronzato sulla settantina che era seduto assieme ad altre persone, presumibilmente straniere – Lui dice che è musicista moooolto bravo… lui era dei Berliner Philarmoniker. Se lui dice di venire è tutto  ok!-
In effetti fù davvero così: straordinario. Il pianista era Ludovico Einaudi ancora in fieri,  non così famoso come poi è diventato. Fù un concerto stupendo,  emozionante e suggestivo,  ne rimasi letteralmente incantata.
Insomma;  dei tedeschi conoscevano meglio di me un pianista italiano eccezionale, erano venuti  nelle Marche a vivere e a godere della bellezza di questa regione che io stessa ignoravo.
E nella pienezza di quegli istanti cominciai veramente a udire a vedere la mia terra  in un’altra dimensione. Cosa che faccio ancora ora.

 

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