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Per gentile concessione di Moreno Neri , grande studioso di  storia rinascimentale e bizantina , un saggio su Ciriaco d’Ancona, ovvero Ciriaco Pizzecolli, che la città di Ancona sembra aver dimenticato

Si sa che la cultura della Grecia si fece sentire in tutta Roma; guidando per mano quel grande popolo guerriero e forte attraverso il dedalo del pensiero e i meandri dell’arte. È proverbiale come i vincitori romani furono vinti dalla cultura dei greci. Ma al principio del XV secolo, il mondo greco antico, quintessenza di un Mediterraneo arcaico e struggente, questa civiltà da cui i romani erano stati irresistibilmente attratti, era caduta da lungo tempo — ormai un millennio! — nell’oblio.
Il pioniere della riscoperta della Grecia, il primo italiano a viaggiare in Grecia e il primo vero antiquario a giungere là dal tempo degli antichi romani filo-ellenici fu Ciriaco Pizzecolli d’Ancona [i] — il Pausania del Medioevo, come lo chiama William Miller nei suoi saggi sull’Oriente Latino, paragonandolo all’autore che con i suoi trattati aveva descritto tutte le terre greche. Nacque il 31 luglio 1391 da una famiglia patrizia [ii] di prosperi commercianti anconitani. Perse il padre Filippo quando aveva sei anni, subito dopo vari rovesci finanziari che la famiglia aveva subìto a causa di tre naufragi e di due incursioni piratesche. Sua madre Masiella (nata Selvatico), seppur ridotta in povertà, lo allevò con i suoi due fratelli, Cincio e Nicolosa, e “lavorando giorno e notte, faceva qualunque cosa fosse possibile per istruirli nelle buone maniere e nelle lettere” [iii].
Il nonno materno, e omonimo – si chiamava Ciriaco Selvatico —, lo portò con sé all’età di nove anni in un viaggio a Venezia e a Padova e prima di giungere all’adolescenza Ciriaco aveva visto Napoli e gran parte dell’Italia Meridionale. A quattordici anni cominciò un apprendistato nell’impresa mercantile di un ricco parente, un certo Pietro; in pratica firmò per l’imbarco su una nave con l’obbligo di restarvi sette anni, perché, come ci racconta, “voleva vedere il mondo”, e nel volgere di due anni fu in grado di condurre da solo l’attività, diremmo oggi, di import-export, avendo imparato tutto da solo — nella vita sarà sempre un autodidatta — il conteggio, la tenuta dei libri e la trattazione degli affari sotto ogni aspetto. Lo stesso nonno del resto aveva sospinto il giovane in quest’impresa, giacché riteneva che la città d’Ancona fosse totam non liberalibus studiis sed mercemoniis dedita (tutta dedita non agli studi liberali, ma al commercio). In un’epoca in cui il mondo civilizzato era segnato dalle divisioni religiose tra cristiani e infedeli o, dall’altro punto di vista, tra veri credenti e giaurri [iv], il commercio era un’ottima occasione per allargare la mente ad uno spirito curioso come Ciriaco, animato dal desiderio invincibile di viaggiare e di vedere paesi nuovi, — dove il mondo, infine, nel Mediterraneo, si divideva piuttosto tra compratori e venditori e non vi erano barriere di cultura o di religione che tenessero: l’impero ottomano e il sultanato mamelucco erano soprattutto mercati. Come Erodoto e Solone, Ciriaco così unì gli affari e i traffici ai viaggi e alle scoperte, come primo modo di affrontare l’alterità e aprire la mente a nuove vie, tanto più nuove quanto più erano antiche.
Nel 1412, salpò per il Levante sulla nave ancora di un suo parente, un certo Alfieri, come “scrivanello” (scriba minor), con un carico di frutta per Alessandria d’Egitto, la metropoli dei Mamelucchi, e ritornò, al servizio di un mercante veneziano come “primo scrivano”, facendo scalo e tappa in Cilicia e in Bitinia, a Creta, Cipro, Rodi, Beirut, Mileto, Samo, Chio e, poi, in Sicilia e in Dalmazia. Dopo un anno e mezzo ritornò in patria, doctior opulentiorque (più istruito e più ricco). In quello stesso 1413, la notte del 6 ottobre, fu tra gli eroici patrioti anconetani che difesero la città dall’assalto tentato a Capodimonte dal pesarese Galeazzo Malatesta, che lasciò centinaia di morti e prigionieri. Ma ciò che distinguerà sempre Ciriaco sarà l’amore per la cultura; certamente non disprezzerà il denaro, ma per lui la cultura varrà più del denaro e più del potere. Nel frattempo, infatti, in quegli anni, si dedica alla lettura e legge i classici moderni in volgare: Dante, Petrarca, Boccaccio… Nell’anno 1418, su una nave anconitana, giunge a Costantinopoli, capitale di quell’impero bizantino che sta perdendo sempre più territorio nella morsa dei Turchi, che conosce facendo sosta a Gallipoli (l’odierna Gelibolu turca all’entrata dei Dardanelli).
Viaggi in Italia e un incarico pubblico lo trattengono per molti anni. Gabriele Condumer, Cardinale Legato delle Marche, in pratica il governatore, lo aveva incaricato dell’ambizioso progetto di ricostruire l’antico porto di Ancona. A causa di questa sua responsabilità municipale s’interessò dell’Arco di Traiano e ne copiò l’iscrizione che vi si poteva ancora leggere, anche se le lettere di bronzo erano state da tempo predate. Sembra allora avere improvvisamente sperimentato una sorta di contatto diretto col passato e di avere simultaneamente capito quanto siano fragili i resti del passato, le rovine greco-romane, le nostre pietre levigate, le nostre opere, avanzate dall’antichità. L’Arco di Traiano sarà la pietra di fondamento delle collezioni che lo avrebbero reso famoso. Divennero la vocazione della sua vita, quasi una conversione religiosa, e fu il primo di molti grandi classicisti dilettanti e senza dubbio il più intraprendente e prolifico registratore delle antichità classiche, il vero genio e lo scopritore della scienza antiquaria, nel più ampio senso della parola, e cioè intesa come sopralluogo ai siti archeologici, come studio sistematico delle vestigia fondato sulla loro riproduzione grafica e sulle loro emergenze epigrafiche, ma anche come occasione di divagazioni fantastiche. Imparò il latino nel 1421, all’età di 30 anni, sotto la guida di Tommaso Seneca da Camerino [v], e cominciò a copiare e a raccogliere iscrizioni romane nei suoi ora famosi taccuini. Nel 1423 lascia Ancona per non vulgaribus torpescere (intorpidirsi nelle cose ordinarie). È a Roma il 3 dicembre del 1424, ospite di Condulmer, che nel frattempo, anche lui, ha lasciato Ancona e lì esplora l’Urbe e i suoi dintorni alla ricerca di monumenti e iscrizioni. Il cardinale lo ha fornito di un destriero bianco e possiamo immaginarlo, in quei quaranta giorni, cavalcare tra le rovine di templi, teatri, palazzi, terme, obelischi, archi trionfali, acquedotti, ponti, colonne e statue e legare il cavallo per le briglie a un rovo per attardarsi a copiare iscrizioni o a schizzare, col suo rapido tratto, un monumento. In seguito visiterà Sutri, Viterbo e altre città dell’agro romano.
Nel 1425 fu rimandato per qualche tempo a Costantinopoli per attendere una nave dei Contarini di Venezia e qui cominciò a studiare il greco [vi]: “Come Dante aveva suscitato in lui il desiderio di Virgilio, così questo lo fece desideroso di Omero, che Dante stesso pose alla testa degli altri poeti” [vii]. Durante lo stesso viaggio strinse amicizia con la famiglia Giustiniani, un clan genovese che allora governava l’isola di Chio [viii]. Chio divenne la sua base operativa e il deposito delle sue scoperte — monete, gemme, bronzi, vasi, marmi, iscrizioni su pietra, manoscritti. Esplorò le isole egee, Rodi e quindi Beirut e Damasco. A Cipro, dove si ferma un anno, frequenta la corte del re di Cipro (e formalmente anche di Gerusalemme e d’Armenia), il francese Giano di Lusignano (1398-1432), dove compera codici dell’Iliade, dell’Odissea e delle Tragedie di Euripide. Ma diversamente da altri umanisti come Francesco Filelfo (1398-1481), Leonardo Bruni (1370-1444) e Poggio Bracciolini (1380-1460), con cui era in stretti rapporti, Ciriaco era sempre più persuaso che i monumenti, popolati di dèi ed eroi, e le iscrizioni, queste pagine di pietra e di marmo scritte col maglietto e lo scalpello, fossero dei testimoni più fedeli dei testi degli autori antichi. Quel che non poteva trasportare lo disegnava.
Durante i seguenti tre decenni Ciriaco attraversò in lungo e in largo il Mediterraneo orientale con dotta e commerciale assiduità, spesso su navi anconetane e non v’è città dove non incontri un concittadino [ix], sbrigando ora una commissione politica ora una commissione papale, leggendo in greco l’Iliade, le Opere e i Giorni di Esiodo e i codici di Tolomeo. Mentre passa per Cipro fa, nel 1428, una sosta di un mese per governare la città di Famagosta, durante l’assenza del suo podestà, prendendo decisioni basate sul diritto romano; ancor prima era stato scelto come uno dei sei anziani che governavano Ancona, anche se aveva l’età minima per far parte del senato cittadino. È in Asia Minore a Cizico, dove trova un mondo di rovine, immense colonne del tempio fatto costruire da Adriano e i resti di un anfiteatro, e a Smirne, dove acquista antiche monete d’oro. Lo troviamo nel 1431 a Gallipoli, dove apprende che il suo amico e vecchio datore di lavoro del progetto di rinnovamento del porto, Gabriele Condulmer, è stato eletto papa col nome Eugenio IV. Lo rintracciamo in un convento di Cipro che negozia con alcuni monaci del luogo un manoscritto dei Vangeli per la loro Iliade [x]. Lo troviamo che risiede ad Adrianopoli (l’odierna turca Edirne, allora la capitale ottomana in Europa in Tracia) dove commercia in tappeti e riceve ospitalità e un salvacondotto (berat) dal Sultano Murad II, che gli consente di viaggiare nell’Impero Ottomano senza molestie e libero da qualsiasi dazio; qui avrà il tempo di dare testimonianza dello spettacolo fastoso della corte del Sultano e della miseria delle migliaia di Greci catturati e resi schiavi dopo la conquista di Salonicco nel 1431. Questa compassione non gli impedirà di acquistare in un mercato degli schiavi una fanciulla dell’Epiro, Chaonia, che invierà a casa come domestica della madre, che sarà battezzata come Clara e che, di fatto, diverrà la sua concubina.
Lo vediamo ritornare in Italia quando tenta di interessare il suo amico Condulmer, ora Papa Eugenio IV, in una crociata contro i turchi così da poter salvare le sue preziose rovine greche da un’ulteriore profanazione e fu certamente in queste discussioni che si concepì il progetto di convocare un concilio per riunire la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa, sanando lo scisma che risaliva al X secolo, per poi proclamare una crociata che avrebbe dovuto respingere i Turchi dall’Europa. Eugenio IV farà entrambe le cose, convocando il Concilio di Ferrara-Firenze nel 1437 e proclamando la crociata nel 1443. Ciriaco fa alcune escursioni a Ostia e a Tivoli per esplorare monumenti. Lo troviamo il 21 maggio del 1433 a fare da guida alle antichità di Roma all’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, giunto nell’Urbe per la sua incoronazione e di cui Ciriaco è già stato ospite di riguardo a Siena. Attraversando l’Urbe spopolata, folta solo di vigne e di rovine, amaramente annotava dolendosene: “coloro che oggi conducono la loro vita tra le mura di Roma, trasformano turpemente, oscenamente, di giorno in giorno in bianca ed impalpabile cenere gli edifici marmorei, maestosi e decoratissimi sparsi ovunque per la città, le statue famose e le colonne… cosicché in breve tempo nessuna immagine e nessun ricordo di esse resterà ai posteri” [xi]. Con la cenere Ciriaco intendeva quella fornita dalle innumerevoli fornaci da calce in cui per i secoli del Medioevo e ancora al suo tempo venivano cotti i marmi provenienti dagli antichi templi, palazzi imperiali e patrizi. Lo troviamo a Firenze con Cosimo de Medici, Palla Strozzi, Niccolò Niccoli, Filippo Brunelleschi e in visita all’atelier di Donatello; a Milano, ricevuto dal duca Filippo Maria Visconti che nel 1433 lo incarica di catalogare le antichità e di accertare se a Milano e Pavia insubrum quidquid nobile reliquum vetustatis extat, e a Genova. Frequenta vescovi umanisti e bibliofili come il padovano Pietro Donato. Lo vediamo tracciare piani col Re di Napoli per distruggere i pirati; visitare il lago d’Averno, Pozzuoli, Miseno, Cuma e Baia. Lo troviamo una seconda volta a Napoli a far balzare di gioia il re Alfonso, presentandogli una goccia d’ambra dorata nel quale era intrappolata una zanzara ad ali spiegate; frequentare come amici i migliori umanisti del tempo: oltre a quelli già nominati, Carlo Marsuppini, Guarino da Verona, Maffeo Vegio, Flavio Biondo, Roberto Valturio e, sopra tutti, Francesco Filelfo; a fare, quindi, i suoi due più grandi viaggi in Grecia.
Nel 1435-37 navigò lungo la costa dalmata, disegnò le mura ciclopiche di Azilla nell’Epiro, attraversò le Isole Ionie per poi passare attraverso Delfi — “vidi statue distrutte qua e là ed iscrizioni meravigliose e in greco e in latino e grandi pezzi di marmo” — e finalmente vide Atene, allora ducato fiorentino sotto gli Acciaioli, che lo colpì in generale come un mucchio di rovine: “vidi le grandi mura distrutte dal tempo, e nella città e fuori nei campi incredibili edifici di marmo, case e templi e varie statue di cose, distinte per meravigliosa maestria, e colonne enormi, ma tutte queste cose lasciate nella massima rovina da tutte le parti”. Ma il Partenone era qualche cosa di altro, “sulla fortezza più alta della città un grande e meraviglioso tempio di marmo della Dea Pallade, un’opera gloriosa di Fidia”. Dopo il 1436 lo avrebbe rivisitato nel 1447. In seguito vide Sparta, Mistrà, Corinto, le ciclopiche mura di Argo e la costa occidentale del Peloponneso, allora chiamato Morea, un paese delle meraviglie artistiche. Sempre nel 1435 visitò, risalendo il Nilo, attraverso Sais, e descrisse le piramidi di Memphis e altre antichità dell’Egitto. Francesco Scalamonti, l’amico e compatriota suo biografo, che gli sopravisse a lungo (morì di peste nel 1468 ad Ancona) racconta come si fosse proposto di conoscere la terra fino alle sue estreme propaggini e volesse visitare anche il bordo delle frigide terre artiche, fino alla mitica isola di Thule, e il torrido equatore, aldilà dei Monti degli Elefanti, nel regno degli arsi Etiopi.

 

Ciriaco d’Ancona, disegno del Partenone.

 

Nel 1438 torna in Italia e alterna la sua presenza tra Ancona e Firenze, dove si svolge il Concilio dell’Unione tra le Chiese. Collaboratore tra i più fidati del papa, alla bisogna fa da traduttore negli incontri con la delegazione greca. Vi ritrova il suo amico Gemisto Pletone, il filosofo di Mistrà, frequenta la corte dell’imperatore bizantino Giovanni Paleologo, conosce il metropolita di Nicea, e discepolo di Pletone, Bessarione, che in seguito diventerà uno dei più importanti cardinali della Chiesa Romana. Nel 1440, fu scelto come uno dei sei regolatori che dovevano rinegoziare un trattato commerciale con un’amichevole rivale di Ancona, la libera città di Ragusa (l’attuale Dubrovnik). Scrive la Naumachia regia, un resoconto della battaglia navale del 5 agosto 1435 presso l’isola di Ponza, dove il re di Napoli, Alfonso d’Aragona, fu fatto prigioniero dai Genovesi. Di un altro scritto, Sulle famiglie nobili dei romani, non conosciamo che il titolo. Nell’ottobre 1441 partecipa con un sonetto al “Certame Coronario”, una gara poetica in “volgare” sul tema dell’amicizia che si svolse a Firenze, a Santa Maria del Fiore, cui prese parte anche Leon Battista Alberti insieme a vari altri poeti e rimatori popolani e che lasciò tutti scontenti, giacché la giuria, composta da dieci segretari apostolici, non aggiudicò il premio, che consisteva in una corona di lauro d’argento.
Nel 1444 Ciriaco partì di nuovo per Atene, viaggiò attraverso l’Egeo nel successivo biennio e ritornò nel Peloponneso nel 1447 [xii]. Nei primi dodici mesi del periodo ricordato, Ciriaco era successivamente nell’Eubea, a Ragusa, a Chio, in Asia Minore, ad Adrianopoli, Costantinopoli, nella Propontide, ossia nel Mar di Marmara, a Taso, nell’isola di Imbro e a Ainos (nei pressi dell’attuale Keşan, nella Turchia europea). Trova il tempo di scrivere lettere al Basileus bizantino Giovanni VIII Paleologo, al cardinale Cesarini e al reggente d’Ungheria Giovanni Hunyadi. La maggior parte delle lettere sono dirette al suo amico genovese di Chio, Andreolo Giustiniani Banca [xiii]. Scrive lungamente circa l’unione delle chiese, su un trattato del re di Spagna con il papa, della guerra ungherese contro i Turchi, del governo della Morea, dei pirati nell’Egeo, degli enormi mercati degli schiavi greci, fa una minuta descrizione del Partenone e descrive il tempo durante suoi viaggi in mare. Lo troviamo nel giugno del ’44 ad Adrianopoli che ascolta i pettegolezzi sulle negoziazioni tra il Sultano Murad II e i rappresentanti del giovane Re Ladislao II di Polonia e d’Ungheria, capo dell’esercito crociato alleato che sta per discendere dall’Ungheria, aprirsi la via attraverso i Balcani e affrontare l’armata turca sul versante europeo del Bosforo, mentre una flotta papale dovrà impedire alla massa dell’esercito turco di attraversarlo dall’Asia verso l’Europa. Anche dopo la disastrosa sconfitta dell’esercito crociato, nel novembre del 1444 a Varna, dovuta alle preponderanti forze dei turchi che avevano attraversato il Bosforo nonostante la flotta papale, continua a tenersi al corrente dei tentativi del generale ungherese Giovannni Hunyadi che, ricostituito il suo esercito, riprende la sua offensiva contro i turchi, fino alla sua ultima sconfitta nella seconda battaglia di Kosovo nell’autunno del 1448, solo alcuni mesi prima del ritorno di Ciriaco in Italia. Sembra essere stato anche uno dei primi speleologi ed ignorò i racconti locali su un drago (tratti dal mito di Eracle e Cerbero) per scendere nella caverna all’estremità di Capo Tenaro (Capo Matapan) che si voleva conducesse agli Inferi (Pausania III, 25, 5): “nessun drago ci atterrì… ma lo sbatter d’ali di tre piccioni che volavano fuori assalì i cuori tremanti dei nostri compagni. E con l’accompagnamento di tre nativi di Porasia e Tenaro, discesi quindi, attraverso la bocca rocciosa, nella parte interna della caverna. … scendendo con candele accese attraverso le spalancate viscere dell’abisso, abbiamo sentito che stavamo avvicinandoci ad una buca di profondità indeterminata”. Trascorse l’inverno del 1447-8 sul freddo monte di Mistrà, nella casa del grande e misterioso filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone. Là visita il sito dell’antica Sparta, nella pianura dominata dal monte di Mistrà, la capitale bizantina della Morea (il Peloponneso), dove il suo ospite, Costantino, il despota di Morea sarà presto incoronato (ultimo) imperatore di Bisanzio alla morte di suo fratello Giovanni VIII. Durante il lungo soggiorno nella capitale del Peloponneso compone in greco per il futuro imperatore una spiegazione del calendario romano [xiv], confronta il suo manoscritto della Geografia di Strabone, da poco acquistato, con quello in possesso di Pletone e lo traduce leggendolo con lui, copia un riassunto della Guerra di Troia di Ditti Cretese e sul manoscritto che si è conservato si possono ancora vedere la scrittura di Ciriaco e una correzione di pugno di Pletone. Conosce il discepolo di Pletone, Laonico Calcondila, che sarà il grande storico dell’ultimo secolo e mezzo dell’impero di Bisanzio. Nella primavera del 1448 è a Acrocorinto e nell’autunno lo si trova in visita al suo amico, Carlo II Tocco, despota d’Arta in Acarnania, nella Grecia nord-occidentale (Epiro) che malinconicamente muore durante la visita di Ciriaco.

 

Ciriaco d’Ancona, disegno di un bassorilievo di Pan nell’isola di Taso (1444-14445), Oxford, Bodleian Library.

 

 Durante tutto questo tempo continua ad essere il mercante in antichità di sempre, almeno di quando in quando, acquistando manoscritti (di Platone, di Aristotele, di Erodoto, di Ippocrate e di Plutarco, come dei Padri della Chiesa e di Dionigi), gemme antiche, monete e sporadici pezzi di scultura. Ora è una specie di autostoppista marino, acciuffa passaggi sulle navi mercantili di Venezia e Genova portando nel suo zaino i suoi personali manoscritti della Storia Naturale di Plinio, di Tucidide e dei geografi antichi come Tolomeo, Pomponio Mela e Strabone. Li legge e li annota per tenersi occupato mentre aspetta una nave che lo porti alla sua prossima destinazione. In quella borsa copiosa ci sono anche i suoi preziosi quaderni, sempre più numerosi, nei quali registra quello che ha appena visto nei suoi viaggi, insieme a copie delle iscrizioni antiche trovate nei luoghi che ha visitato, illustrati con la propria mano, spesso naif.
In conclusione, cosa fece Ciriaco per la nostra comprensione del mondo antico? I primi umanisti del Rinascimento scoprivano l’antica cultura greco-romana principalmente attraverso lo studio dei manoscritti classici. Ciriaco, commerciante e diplomatico ma anche erudito e per giunta autodidatta, fu tra i primi a studiare di persona le vestigia materiali del mondo antico e per questo motivo è spesso considerato il padre dell’archeologia classica. I suoi diari di viaggio e le sue lettere sappiamo che dovevano essere colme di descrizioni dei siti classici, di illustrazioni degli edifici e abbozzi delle statue, di disegni d’ogni specie e di copie di centinaia di iscrizioni latine e greche, di versi e di leggende di monete a centinaia, di piccoli trattati d’archeologia. Ciriaco giunse a ritenere come sue supreme aspirazioni e la registrazione dello stato attuale dei resti dell’Antichità e l’esortazione alle autorità locali affinché fossero conservati, rendendosi conto che la testimonianza archeologica era un complemento insostituibile dell’annotazione scritta.

 

 

In alto: uno schizzo di Ciriaco d’Ancona di un’antica pietra tombale romana inserita
nella facciata occidentale della chiesa di Ag. Iannis (S. Giovanni Apostolo)
nel villaggio di Keria nel Mani peloponnesiaco.
In basso: una foto della medesima pietra tombale. La lastra è stata rubata nell’inverno del 1998.

 

 I souvenir che spedì di continuo da Chio in Italia sono il lascito minimo del suo contributo. La cosa più importante è che salvò numerose iscrizioni latine e greche (circa un migliaio) durante i suoi viaggi in Italia, in Grecia, nelle isole del Mediterraneo e in Asia Minore. Iscrizioni che da allora sono scomparse, fondando con ciò l’autentica scienza dell’epigrafia. Descrisse e disegnò monumenti che, dopo di lui, sono stati danneggiati o perfino i distrutti — cosicché le sue note sono un grande aiuto alla ricostruzione, anche se solo nella mente dello storico dell’arte. Ad Atene disegnò il Partenone, il tempio di Zeus olimpico quando aveva ventun colonne invece delle quindici di oggi, il monumento di Filopappo quando ancora era intatto; visitò anche le rovine del Pireo e vide la grande statua di marmo di un leone all’entrata al porto, che dava allora al porto il suo nome, Porto Leone, appunto [xv]disegnò inoltre la chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli e molti altri edifici. Grazie a lui sappiamo come si poteva vedere il mastodontico tempio a Didima in Asia Minore prima che un terremoto lo squassasse. Grazie a lui il completamente svanito tempio di Zeus a Cizico (Kyzicos) potrebbe essere ripristinato, almeno sulla carta. E grazie alla sua errata identificazione — anche lui non era perfetto — un busto di Tiresia di Samotracia divenne il modello per i ritratti del Rinascimento di Aristotele.
Sono, questi, solo piccoli esempi dell’ulteriore ed essenziale approccio all’Antico, rappresentato, nell’Umanesimo, dalle indagini archeologiche ed epigrafiche di Ciriaco, la cui influenza è però soprattutto avvertibile nelle arti figurative.
Ricordato come personaggio eccentrico e curioso, i suoi furori antiquari suscitavano anche ridicoli ritratti, come quello di Poggio Bracciolini nelle sue Facetiae. In esse Ciriaco è dipinto disperato e affranto addirittura per la caduta dell’impero romano: “Ciriaco d’Ancona, da quell’inguaribile chiacchierone qual è, un giorno deplorava in mia presenza la caduta e la distruzione dell’Impero romano e appariva oltremodo afflitto per quell’avvenimento. A questo punto Antonio Loschi, uomo di grande cultura e che era della compagnia, intervenne a deridere quella sciocca preoccupazione” [xvi].
La scarsa considerazione per il lavoro archeologico ed erudito evidente nella battuta di Poggio non esprime solo un’evidente antipatia per Ciriaco, ma riflette anche la scarsa considerazione in cui era tenuta la tradizione artistica e il recupero dell’antico che diverrà invece il patrimonio più interessante che ci ha lasciato il Rinascimento nella scultura e nella pittura e destinato a durare nel tempo.
Forse più di altri questo Schliemann dei suoi tempi deve mantenere il titolo di primo archeologo, dato che il mondo per altri quattro secoli non ne avrebbe coniati altri. Le rovine dell’Antichità, “le glorie semidistrutte” erano voci viventi che gridavano per essere riconosciute. La rinascita dell’archeologia era legata alla rinascita dell’ellenismo. Il loro sviluppo andava di pari passo.
Tutte le Accademie che nacquero, di cui tra poco parleremo, nella loro devozione agli Antichi, echeggiavano il cri de cœur di Ciriaco “vado a destare i morti” [xvii]. Si restaurava il loro posto perduto nella storia del mondo, si cercava di far ritornare quel tempo in cui eravamo stati grandi, quel tempo in cui non eravamo mai stati sconfitti.
Il mito rinascimentale di un ritorno all’arte antica comporterà da subito e da allora, nella scultura e nei monumenti, il primato del marmo e quello del bronzo, anche nella medaglistica, intesa quale recupero della romanità soprattutto imperiale. Il tempo aveva risparmiato solo i prodotti della scultura in materiale resistente e della fusione in metallo non prezioso (risparmiato dall’ingordigia umana). Marmo e bronzo si saldavano così a quello che rimane uno dei grandi motori della civiltà rinascimentale: il desiderio che la propria fama duri il più a lungo possibile sulla terra. Solo queste materie possono in effetti competere con la conclamata immortalità delle opere letterarie.
Ma anche numerosi dipinti – di Andrea Mantegna, Benozzo Gozzoli, Gentile da Fabriano, oltre che di Pisanello e Piero della Francesca – conservano tracce profonde e sensibili dell’influenza dei disegni di Ciriaco, cui studi recenti accordano un più definito rilievo. Quanto grande sia stata l’impressione destata dai suoi disegni nella fantasia di artisti, architetti e scultori, ce lo dimostra il fatto che proprio ad opera di Giuliano da Sangallo (1435 ca.-1516) ci sono conservati il suo abbozzo del Partenone e quello della basilica di Santa Sofia, che ci mostra sia l’interno che l’esterno. Altrettanto recenti sono le attinenze riscontrate in Leon Battista Alberti dovute alle frequentazioni antiquarie di Ciriaco d’Ancona. L’anonimo illustratore della Hypnerotomachia Poliphili (1499), pubblicata da Aldo Manuzio e universalmente considerato il più bel libro del mondo, specialmente per le sue rigogliose illustrazioni di edifici di stile classico ha certamente visto e impiegato i disegni di Ciraco. Nel Trionfo della Virtù sul Vizio (la cacciata dei Vizi dal giardino delle Virtù) di Andrea Mantegna, oggi al Louvre, eseguito intorno al 1497 per lo studiolo di Isabella Gonzaga, che diviene il trionfo di Atena Polia sulla Venere carnale, in precario equilibrio sopra un centauro in fuga, le Muse danzanti e Mercurio sono ispirate a disegni di Ciriaco. I suoi disegni di animali esotici, visti al Cairo intorno al 1433 circa, influenzarono Gentile Bellini e Hieronimus Bosch, nel primo caso nel San Marco che predica ad Alessandria d’Egitto (1504-1507) e nel secondo nella raffigurazione di una giraffa bianca al centro del Trittico delle delizie (1505-1510). Purtroppo è anche andata perduta un effige del suo patrono Mercurio dipinta a colori, che donò a Carlo Marsuppini, per la sua collezione, e che la lodò come eccellente opera d’arte: ne è una copia quel disegno di Ermes arcaico del V secolo a. C. con fiamme rovesciate sulla clamide e modificato con burleschi e osceni ritocchi, conservato alla Bodleiana di Oxford e verosimilmente ci è noto anche attraverso i disegni di Hartmann Schedel e di Albrecht Dürer; probabilmente fu inoltre la diretta fonte d’ispirazione del Mercurio (circa 1460), XXXXII carta dei Tarocchi ferraresi, tradizionalmente detti del Mantegna, come pure di altre immagini del dio presente in cassoni, codici, manoscritti, medaglie e xilografie.

 

Ciriaco d’Ancona, Carola delle Muse, dopo 1485, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

 

Accenniamo anche al fatto che, grazie alle sue ricerche epigrafiche e ai suoi esempi di paleografia, mutò nei manoscritti la scrittura, che divenne anch’essa antiquaria e in parte arcaizzante, per certi aspetti calligrafica, con le sue eleganti ricercate allusive raffinatezze che si ritrovano nei modelli antichi. La lezione di Ciriaco fu presa a ispirazione da famosi copisti, tra cui Felice Feliciano [xviii] e Bartolomeo Sanvito.
Infine fu propria la consapevolezza di Ciriaco che il Tempo minacciava di distruggere quest’opera inimitabile, rappresentata dai libri antichi e dagli avanzi del passato, e la diffusione di questa coscienza, che portarono in quell’epoca alla necessità di aprir loro un ricovero, nel quale non potessero ricever offesa dal tempo. Sono le prime biblioteche e i primi musei, sempre allestiti, inaugurati e aperti al pubblico dalle Accademie o da esponenti di esse.
Sappiamo da una lettera di Francesco Filelfo che all’inizio dell’inverno 1448-1449 Ciriaco è di nuovo sul suolo italiano, a Venezia. Due lettere a Roberto Valturio, consigliere di Sigismondo Pandolfo Malatesta, a fine giugno lo localizzano a Ravenna, dopo un soggiorno alla corte di Rimini [xix]. Infatti l’elefante utilizzato come motivo decorativo del Tempio Malatestiano di Rimini, che si edificava in quel periodo, e raffigurato su una delle facce di una coeva medaglia di Matteo de’ Pasti in onore dell’amante e poi moglie di Sigismondo, Isotta, che è seppellita nel Tempio, sono direttamente ispirati a un disegno di Ciriaco [xx]. Subito dopo, nel mese di luglio del 1449, Ciriaco è a Padova da dove scrive ammirato della nuova statua equestre del Gattamelata di Donatello e quindi a Ferrara, dove, grazie a Leonello d’Este, è tra i primi a poter vedere lo straordinario capolavoro di Rogier van der Weyden, La sepoltura del Cristo [xxi]. La sua definizione di Cristo come humanatus Iovis “Giove incarnato”, può lasciare perplesso il profano, ma la sua meticolosa descrizione mostra comunque in lui una consapevolezza della primavera artistica dell’arte occidentale che ha la stessa gioia delle sue scoperte dei tesori classici: si è davvero nel Rinascimento! A Ferrara vide anche due quadri terminati che ritraevano le muse Clio e Melpomene (entrambi scomparsi) nell’atelier di Angelo del Macagnino da Siena, detto anche Angelo Parrasio, probabilmente destinati allo studiolo del signore di Ferrara, Leonello.
Le informazioni su Ciriaco diventano più tenui verso la fine della sua vita, una mera serie di probabilità. Dei registri di Genova in data 31 agosto 1449 confermano che Ciriaco richiese un salvacondotto per viaggiare a ovest e a sud che fu accordato, ma se mai davvero viaggiò in Spagna, come alcuni ritengono, non lo possiamo sapere.
Davvero nel 1452 era nella tenda del Sultano Mehmet II sull’Ellesponto, a leggere Erodoto e Livio al monarca meditabondo, mentre i turchi assediavano la futura Istanbul e le icone della Vergine piangevano nelle chiese? In compagnia del sultano è forse potuto entrare a Costantinopoli dopo la sua caduta il seguente anno? Questo pettegolezzo lo ha fatto, presso taluni storici, un opportunista e un voltagabbana, ma la presunta storia della sua presenza al campo di Mehmet è oggi ampiamente screditata e così la sua lealtà è fuori discussione e le sue numerose lettere a favore di una Crociata restano a dimostrarlo. Questo non impedisce che un eminente storico come Franz Babinger nel suo noto libro Maometto il Conquistatore, testo di cui ci pare superfluo ribadire l’importanza nella cultura europea, usi parole sprezzanti nei confronti del nostro Ciriaco. L’unica giustificazione è che è stato scritto da un tedesco negli Anni Trenta: “favoleggiatore indegno di fede e burbanzoso millantatore, anzi falsario e ingannatore”, non solo “segretario” di Maometto e “tra i più prossimi accompagnatori di Maometto”, ma “consigliere e istruttore”, lettore perfino durante i pasti del sultano [xxii]. Senonché questa leggenda, basata sulle sue buone relazioni con i Turchi, che erano solo un mezzo per proteggere la sua vita e conservare la sua attività e sugli stretti rapporti che peraltro Ciriaco ebbe col sultano, nata da un passo di Iacopo de’ Languschi, un veneziano contemporaneo di Ciriaco, e ripresa da un altro veneziano dell’epoca, Zorzi Dolfin (1396-1457 ca.), nella sua Cronaca [Ogni di (el signor Maumetho, gran Turco) se fa lezer historie romane et de altri da un compagno, detto Chiriaco d’Ancona…] riportata letteralmente dallo storico tedesco, è stata definitivamente screditata. È infatti bastato ricontrollare la frase incriminata per scoprire che si trattava di una lettura errata compiuta da un erudito tedesco nell’Ottocento, Georg Martin Thomas: non si trattava infatti di un Kiriakos d’Ancona, ma di un Kyrizys grammateus (segretario) da identificare con Demetrius Apocaucus Kyritzes, effettivamente segretario del Gran Turco [xxiii].
Probabilmente Ciriaco morì, sul suolo italiano. Probabilmente a Cremona. Forse nel 1455 e più probabilmente nel 1452, come ci conferma un’isolata nota in un manoscritto così corrotta da non rendere pienamente riconoscibile la data precisa, un anno prima della caduta di Costantinopoli, un evento che suggellava la fine dell’Impero Romano d’Oriente e il breve tentativo di riunione delle Chiese e forse il più occulto tentativo d’instaurare una nuova religione olimpica. I suoi ultimi anni sono avvolti nel mistero, come si confà a quello che in realtà, secondo alcuni studiosi fu: un agente segreto, se non una spia. Ma, se spia, al soldo di chi? Il dibattito tra gli studiosi sulle sue attività “diplomatiche” o “spionistiche” — come si sa, talvolta, le due attività s’intrecciano e si sovrappongono — è così sottile e intricato da rendere impossibile riassumerlo. Se ebbe nel mondo profano quest’attività segreta, allora egli fu due volte avvolto nel segreto, perché fu anche iniziato, come si dirà, a una società esoterica.
Dopo la sua scomparsa i suoi Commentaria, o taccuini, che occupavano almeno almeno tre e probabilmente sei grandi volumi perirono verosimilmente nell’incendio della biblioteca di Pesaro nel 1514. In essi era contenuto il diario dettagliato delle sue peregrinazioni, in cui aveva annotato non solo i luoghi visitati ma anche i personaggi incontrati e disegnato i monumenti e le iscrizioni che trovava e senza dubbio molto ch’era stato sottratto all’oblio, tornò ad essere dimenticato.
La sua influenza deriva dalle poche pagine che ne sono sopravvissute (una piccola parte sui suoi viaggi nel Peloponneso nel 1447-1448, nonché dei brani dei suoi viaggi in Grecia nel 1435-1437), dalle sue lettere e dai numerosi estratti e copie di brani e disegni dai suoi taccuini che circolarono durante la sua vita, ricopiati dai suoi amici e dalla successiva generazione di umanisti, anche se alcune copie dei disegni sfortunatamente non sono così accurati come i suoi originali perduti.
Ma che tipo d’uomo fu Ciriaco? Delizioso, ma un compagno estenuante. Nella notte di Capodanno 1445, dopo aver festeggiato il nuovo anno nel salone della corte di Taso e aver scambiato gli abbracci di rito con gli altri ospiti, subito s’imbarca con un equipaggio su un piccolo battello alla volta dell’antica Ainos e finché il gallo non canta ci pensa lui a tener desti capitano e marinai cantando “alleluia”. Che fosse gentile è evidente dalla sua cura nel registrare il nome degli uomini con cui navigava, che fosse il capitano della nave o un cacciatore o un sacrestano imbarcato, dai saluti alla moglie o ai figli del suo interlocutore nelle lettere, dai suoi regali agli amici, spesso una moneta antica, talvolta un’iscrizione marmorea.
Quando non scarpinava sulle colline greche o non veleggiava su piccole barche lungo il litorale greco a vedere un luogo classico o una colonna da poco scoperta, Ciriaco si dava da fare per organizzare un crociata contro i Turchi (aveva a disposizione un salvacondotto del Sultano, ma il suo amico ed ex datore di lavoro ora era il papa) o lavorava per sostenere l’unione delle chiese, o serviva da ambasciatore e da occhio per l’imperatore bizantino (a cui faceva il resoconto dei suoi viaggi), o visitava i suoi patroni Cosimo de Medici [xxiv], Francesco Filelfo, Sigismondo Pandolfo Malatesta. E proprio Filelfo che alla morte di Ciriaco ci suggerisce qualcosa della sua personalità iperattiva: Nunquam Kyriacus quiescit.
Tutto lo interessava. È difficile scegliere qualche tema tra i tanti che affronta, ma eccone uno a mo’ d’esempio sulla pratica della schiavitù nel mondo ottomano: “[3 dicembre 1442] In numerose occasioni abbiamo visto i cristiani — ragazzi così come fanciulle nubili e una gran quantità di donne sposate d’ogni condizione – fatti sfilare in modo miserevole dai Turchi in lunghe file attraverso le città della Tracia e Macedonia, avvinti in catene di ferro e sferzati dalle fruste, e alla fine messi in vendita nei villaggi e nei mercati e lungo la costa dell’Ellesponto, una visione oscena e inspiegabilmente vergognosa, come un mercato di bestiame, per così dire”.
Fondatore dell’archeologia, primo antiquario, primo numismatico, primo epigrafista, dunque. Ma quello che probabilmente più c’interessa è l’aspetto più segreto, direi proprio esoterico e iniziatico, della sua vita.
È stato osservato che la religiosità di Ciriaco, come appare dalle sue lettere e dai suoi diari, e “sincretistica, semi-pagana e semi-cristiana, nello stile del Rinascimento” [xxv]. Si è notato come, pur essendo un cristiano e un fervente sostenitore del papato, si trovi ugualmente di casa in una chiesa ortodossa greca, specialmente dopo il Concilio dell’Unione del 1439: per esempio il 15 agosto 1446, festa mariana dell’Assunzione della Beata Vergine nella chiesa romano-cattolica, e della Dormizione della Madre di Dio in quella greca-ortodossa, frequenta sia la liturgia bizantina a Costantinopoli e la messa di rito latino nella colonia genovese di Galata/Pera al di là del Corno d’Oro. Ma la divinità o nume tutelare a cui si rivolge nelle sue preghiere [xxvi] all’inizio dei suoi viaggi è Mercurio, il dio dei commercianti e dei viaggiatori; e il giorno di Mercurio, mercoledì, è il giorno speciale di Ciriaco. Si è osservato che anche la sua aspirazione ad andare tra gli Etiopi — il 18 ottobre 1441 sollecitò con una lettera il papa Eugenio IV per averne l’autorizzazione, la benedizione e certamente il finanziamento — nella parte più profonda e ignota dell’Africa, verso la zona torrida dell’equatore, nelle terre del favoloso Prete Gianni a portare la parola del Sommo Pontefice e della Chiesa, mal nasconde le sue ambizioni commerciali e archeologiche [xxvii]. Uno studioso ha osservato come sia incomprensibile che un viaggiatore così mobile, deciso, introdotto in tutti gli ambienti, non sia mai stato a Gerusalemme, allora sotto il dominio dei Mamelucchi, che governavano pure Alessandria, il Cairo, Beirut, Damasco, tutte città da lui visitate, né mai accenna alla città santa, culla della fede cristiana e per giunta la città di cui era stato vescovo il santo patrono di Ancona di cui portava il nome [xxviii]. Si mostra, al contrario, più svisceratamente interessato all’antichissima civiltà egiziana. È, invece, devoto alle Muse e alle Ninfe, e in particolare alla sua ninfa protettiva delle acque, Cimodocea (in greco “ricevitrice dell’onda”) che in una lettera salva una barchetta dal disastro trasformandola in una ninfa, un concetto preso a prestito dal Libro IX dell’Eneide di Virgilio. In un’altra lettera la sua intenzione di navigare da Chio fino all’isola di Lesbo viene subito frustrata dalle ninfe di Chio che provocano venti contrari perché esse vogliono tenerlo intorno all’isola in modo da fargli così scoprire un antico ed interessante tempio sulla costa settentrionale di Chio. Solamente dopo questa scoperta le ninfe di Lesbo acconsentono di accoglierlo nella loro isola. Infine, come abbiamo già veduto, si riferisce costantemente al Cristo incarnato come Jupiter humanatus (Giove incarnato). Per non parlare della sua maniera di datare le lettere, nonché di citare le date nei suoi diari, secondo l’antico calendario romano: per esempio, pridie Kalendas Decembris significa il giorno prima delle Calende (il primo) di dicembre, cioè il 30 novembre. In un linguaggio sincretista simile all’italiano, chiama la domenica dies Kyriaceus (equivalente al latino dies dominica, “il giorno del Signore”); lunedì, dies Lunae, è il giorno di Diana, come dea della luna; martedì è il giorno di Marte (dies Martis); mercoledì dies Mercurii, il giorno di Mercurio; giovedì dies Iovis, il giorno di Giove; venerdì dies Veneris, il giorno di Venere; sabato dies Saturni, il giorno di Saturno. Qualche studioso non ha dubbi nel definirlo, nell’intimo, un pagano [xxix].

 

Mercurio, XXXXII carta della serie conosciuta sotto il nome di “Tarocchi del Mantenga”,
1465 circa, Londra, British Museum.
È in questo clima di “ritorno all’antico”, di rinascita della prisca sapientia, ossia della vera tradizione, non di quella più recente, la cristiana, che occorre collocare l’attività e il pensiero di Ciriaco [xxx]. Io ritengo che oltre alla sua “qualificazione” in senso guénoniano, decisivo fu il suo incontro con Giorgio Gemisto Pletone (Costantinopoli 1355 ca. – Mistrà 1452). Devono essersi incontrati la prima volta nel 1437, se non prima, e stando a quello che dice Iacopo Zeno (1418–1481), vescovo di Padova dal 1460, fu proprio Ciriaco tanto eloquentie flumine et vivis et efficacibus rationibus a convincere l’ultraottuagenario filosofo a venire in Italia per il Concilio dell’Unione [xxxi] e anche se non ci sono prove concrete è certo che frequentò le “conferenze” fiorentine di Gemisto dove il vecchio filosofo insegnò i “misteri platonici” e impartì le sue iniziazioni con l’esortazione a creare accademie, figlie dell’accademia “madre” di Mistrà. Né è improbabile che proprio Ciriaco fungesse da interprete in queste conferenze.
Giorgio Gemisto Pletone fu una delle figure più importanti degli ultimi anni di Bisanzio. Consigliere degli imperatori e dei despoti di Morea, fu l’erudito più prestigioso che produsse la cultura bizantina della sua epoca. A Mistrà creò un circolo esoterico, sul modello dell’antica Accademia di Platone, la cui opera fu di fondamentale importanza per il Rinascimento occidentale. La sua presenza al Concilio dell’Unione delle Chiese ortodossa e cattolica (Ferrara-Firenze 1438-39) — ultimo disperato tentativo di ottenere aiuti militari dall’Occidente contro il Turco — destò una profonda impressione sugli umanisti italiani per la sua ardente difesa del platonismo. Come testimonia Marsilio Ficino nel suo proemio alla traduzione delle Enneadi di Plotino, il munifico signore di Firenze “al tempo del concilio di Firenze fra Greci e Latini, sotto il pontificato di Eugenio, udì spesso un filosofo greco di nome Gemisto detto Pletone parlare, come un altro Platone, dei misteri platonici e fu così ispirato, così profondamente conquistato che, da quel momento, concepì nell’alta sua mente il disegno di una Accademia, da realizzarsi appena se ne desse l’opportunità” [xxxii]. L’accademia platonica fiorentina, che avrebbe posto mano alla traduzione dell’intera opera di Platone, al Corpus Hermeticum e a gran parte del corpo neoplatonico (Giamblico, Proclo, Porfirio, ecc.), sarà realizzata nel 1459 dallo stesso Ficino. Erede del pitagorismo, adepto delle antiche scuole misteriche, iniziato in gioventù ad un mitico zoroastrismo in una scuola sufi da un misterioso maestro ebreo, Elisha, che fece una brutta fine, convinto che il cristianesimo fosse la causa principale della decadenza dell’impero bizantino, Pletone cercò di dare nuova vita alle concezioni pagane, creando una religione filosofica ispirata al platonismo e all’antica sapienza, riprese il progetto dell’imperatore Giuliano, annunciando il sogno che unisce utopia politica a nostalgia religiosa che avrebbe fatto presa su diverse correnti esoteriche, vale a dire su quella cultura magica che fiorì all’insegna del connubio tra razionalismo e spiritualità, fino a Giordano Bruno e oltre, come hanno dimostrato gli studi della Yates [xxxiii] (per non parlare della Massoneria greca che ha Pletone come nume tutelare, al pari del Nolano per quella italiana). Convinto che solo la più chiara e assoluta conoscenza della verità potesse trarre gli uomini dalla confusa incertezza e dal contrasto d’opinioni dogmatiche, Gemisto si richiamava ad un’antichissima verità, comune a tutto il genere umano e pura da ogni contaminazione e tale tradizione illustrava in una dottrina, che certo doveva restare necessariamente esoterica, con la sua concezione di un universo immutabile ed eterno, con la sua idea dell’anima umana, immortale e celeste e, in quanto tale, simile agli dèi e capace di congiungersi ad essi. E al fondo del suo pensiero restava la previsione del ritorno all’unità originaria di ogni sapere, chiuso il tempo funesto delle divisioni, dei dogmi e delle credenze, che trovasse la sua espressione nel culto comune dell’eterno demiurgo divino dell’universo. Non vi è dubbio che di simili idee, anche se la previsione di Gemisto non s’è totalmente avverata nei termini temporali sperati, esorbitanti l’ecumenismo e l’irenismo, resti visibile la traccia anche ai nostri giorni e che il nucleo di queste concezioni continui a restare il tema ispiratore di una meditazione appassionata da parte di diversi pensatori contemporanei e dell’unica istituzione esoterica e tradizionale oggi esistente nell’Occidente. Agli occhi dei suoi contemporanei, il filosofo di Mistrà, appariva come l’interprete per eccellenza dell’ellenismo. Tale onore non gli fu rifiutato dagli uomini del XV secolo: lo storico bizantino Michele Dukas lo definì “principe della setta platonica”; Ciriaco d’Ancona, che visitò il Peloponneso nel 1447, mosso dal desiderio di vedere il suo “carissimo platonico”[xxxiv], lo ricorda come “il più dotto dei Greci del nostro tempo, e nella vita e nella morale e nella dottrina il più brillante e influente filosofo tra i Platonici”, e Sigismondo Pandolfo Malatesta, uno dei suoi ferventi ammiratori, durante una sua campagna militare contro i Turchi (1464) al soldo di Venezia, ne traslò le sue spoglie da Mistrà per seppellirle nel suo “pagano” Tempio di Rimini, sulla cui arca di marmo fece incidere dalle sue maestranze di scalpellini comacini le parole “principe dei filosofi del suo tempo”, in un epitaffio latino commissionato proprio al vecchio corrispondente di Ciriaco, il suo fedele consigliere Roberto Valturio.
Il “teosofo di Mistrà”, come è stato chiamato, aveva aperto una scuola esoterica, che si richiamava alle dottrine di Zoroastro, Pitagora e Platone, sull’esempio e nel ricordo dell’antica Accademia platonica. Là v’insegnava il recupero dell’antica sapienza greca e a rivivere la filosofia antica. Sappiamo anche dagli elogi funebri che nella sua scuola si entrava solo per iniziazione e Pletone è spesso nominato come “mistagogo”, ossia “maestro di iniziati”.
Nel suo progetto di radicale restaurazione del pensiero antico, parlava di una nuova religione universale, che avrebbe assorbito tutti i sistemi esistenti, come il cristianesimo e l’islam. Indicava come propria fonte l’ispirazione dell’antichità classica e affermava “che tutto il mondo tra pochi anni avrebbe accolto una sola medesima religione, con un sol animo, un solo spirito, una sola predicazione” (veram eamdemque religionem uno animo, una praedicatione, universum orbem paucis post annis suscepturum). Quando poi gli si domandava quale sarebbe stata questa fede, se la cristiana o la maomettana, Pletone rispondeva: “né l’una né l’altra; sarà una fede simile al paganesimo dell’antichità” [xxxv], che avrebbe integrato i riti e i culti del passato in una nuova spiritualità improntata al platonismo e adeguata ai tempi.
Su suo implulso, furono fondate in tutte le principali città italiane Accademie ad imitazione delle associazioni platoniche, gettando le basi di un nuovo e creativo movimento filosofico. Nascono Accademie, simili a quelle di Mistrà, a Rimini subito, e poi a Firenze a Careggi, a Napoli la Pontaniana, a Roma la Romana con Pomponio Leto e il Platina, e poi la Vitruviana, che emigrerà a Vicenza e quella di Bessarione, prima a Roma e poi a Venezia, da cui scenderà quella di Aldo Manuzio, il nostro primo grande editore a stampa. Soprattutto l’Accademia Platonica fiorentina divenne un centro di vivaci dispute filosofiche nettamente rivolte contro la Scolastica. Ad essa si legheranno i nomi di Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Angelo Poliziano e avrà tanta influenza su artisti come Botticelli, Michelangelo e Leonardo. La concezione dell’Accademia Platonica non era solo idealistica col suo ritorno all’antica tradizione, ma conteneva elementi di storicismo e di razionalismo che indicavano anche la via del futuro. Come già altre volte ho detto non c’è nessuno storico della Massoneria e dell’esoterismo occidentale, serio o meno serio, e non necessariamente massone, che non reputi il reticolo delle Accademie rinascimentali quantomeno come una sorta di fase pre-istituzionale della Massoneria moderna, risorta ufficialmente nel 1717 a Londra [xxxvi].
Nella seconda lunga sosta a Mistra (prima nell’agosto del ‘47, poi tutto il periodo da ottobre al marzo del ‘48), Ciriaco e Pletone devono aver guardato fisso con i loro occhi su Sparta, oltre i limiti dello stretto recinto del loro secolo, sulle pianure serene dell’antichità, sui templi che s’ergevano fra giardini, su città che non avevano mura, sulla spaziosa campagna ove un tempo l’uomo era stato bello, nobile e felice e dove sperarono che gli uomini potessero ancora ritornarvi. Ciriaco compose un sonetto i cui primi versi cominciano così: “Alma cità laconica spartana, / gloria de Grecia, già del mondo exemplo / d’arme e de castità, gymnasio e templo / e d’ogni alma virtù specchio e fontana… [xxxvii] La verità, stimavano, poteva essere nel passato più che nel presente. Dove si ponevano le loro simpatie intellettuali, riposero anche le loro speranze spirituali. Cercarono la loro religione tra i riti semi-dimenticati dell’antica Grecia. Pletone e Ciriaco ammiravano la tradizione del pensiero antico, che non aveva atteso Cristo per essere perfetta. Devono aver capito che il loro cammino diventava la meta. È dunque da ritenersi, assieme a molti altri seri studiosi, che la nascita delle Accademie sia stata la vera fase d’inizio della Massoneria moderna e la nascita dell’esoterismo cosi come ci è noto in Occidente [xxxviii].
Non conosciamo i termini precisi con cui Pletone avrebbe espresso tali speranze: sappiamo solo che egli fondava il suo sistema sulla Tradizione, parlava di “credenze comuni” (koinå dÒgmata), di cui saggiava la forza usando come criterio la loro età. Con l’ausilio di un gioco di parole permesso dal greco e tale che si conveniva perfettamente alle ricerche di Ciriaco, Pletone collegava i “fondamenti del pensiero”, “i princìpi primi della logica” (logika‹ érxa€) allo “studio delle antichità” (érxaiolog€a): come se ciò che è ‘primo’ per la logica e più saggio per la morale debba anche essere il più antico nel tempo. Diceva ancora Pletone: “La saggezza si contrae in poche parole e tratta poche cose. Tratta i princìpi dell’essere e chi li abbia afferrati alla perfezione sarà capace di giudicare quanto possa venire a conoscenza dell’uomo”. Mentre Ciriaco affermava: “Io, per grande desiderio di visitare tutto il mondo conosciuto, mi sono proposto di esplorare in ogni parte della terra i monumenti dell’antichità, che di giorno in giorno e per il logorio del tempo e per l’incuria degli uomini vanno in rovina e a tradurre per iscritto il ricordo mi sono tutto votato e dedicato”. Il pensiero di Ciriaco in questo senso è davvero “pagano”, cioè “rustico”: è legato alla pietra e alle rocce, ai campi, ai monti e alle acque: non è una teologia, un programma ideologico; è una vita, e gli dèi e le ninfe vi abitano, si manifestano, gli parlano. Con l’ebbrezza ermetica Mercurio lo fa viaggiare, navigare, attraversare ogni confine; è lui, con la sua verga magica, che controlla nuvole e venti. Il celere e alato messaggero degli dèi è nella mercatura, gli fa attuare scambi, commerciare, vendere, acquistare, comunicare e informare e scrivere. Difatti, sacro ai commercianti come ai letterati e ai metafisici, Mercurio/Ermes dà il nome non solo alla mercatura, ma anche all’interpretazione erudita, l’ermeneutica, e alla rivelazione della conoscenza segreta o “ermetica” e, perciò, questo dio è il divino mistagogo che colma la distanza tra il divino e il terreno. Leonardo Bruni disse, una volta a Ciriaco: “per te sarebbe meglio non saper tanto quanto tu sai”.
Da alcuni suoi contemporanei Ciriaco fu anche ritenuto un vanitoso millantatore e un falsario: più che altro sono menzogne di nemici, ma anche se talvolta fosse stato vero, nessuna meraviglia, “il santissimo genio Mercurio”, è anche il dio dei falsari [xxxix]. Alcuni tra i maggiori eruditi e uomini più ragguardevoli del suo tempo possono aver guardato con compassione alla sua mania di “ridestare i morti”. Ma qui è in atto il potere archetipico, simbolico; Mercurio è anche il dio che col suo caduceo evoca le ombre dagli inferi o allo stesso profondo abisso le avvia e dà sonno e veglia, vita e morte [xl] e, come dice Jung: “Non è affatto indifferente chiamare una certa cosa ‘mania’ oppure ‘dio’. Servire una mania è odioso e indecoroso, ma servire un dio è cosa ricca di significato…” [xli].
Si comprende così come Ciriaco fosse profondamente convinto di poter far rivivere colla “arte sua” i morti, di richiamarli in vita, di disperdere i veli e le nubi da ciò che da lungo tempo era dimenticato e sepolto, ché solo di quanto di morto ci circonda ci tocca mutarne in vita per esistere. E ricordava allegro, come avesse spaventato un rozzo prete di Vercelli, che gli aveva chiesto cosa facesse nella sua chiesa rispondendogli: “la mia arte è di richiamar talvolta dalla tomba i morti e l’ho imparata dagli oracoli pitici”.
Mercurio è, infine, e allo stesso modo magico, il dio “ingegnoso” dell’intelletto, quello che richiama la mente alle cose celesti attraverso il potere della ragione. In questo senso, nella possibilità di ciascuno di disperdere le nubi per giungere all’illuminazione intellettuale, Ciriaco è discepolo di nessuno, come egli stesso si proclamerà poi, ma solo di sé stesso.
Ciriaco de’ Pizzecolli? Uno degli spiriti più nobili dei primi pionieri del Rinascimento, un uomo che aprì la strada, dopo il Medioevo, e nel mondo moderno alla restaurazione della civiltà e della sapienza antica della Grecia e di Roma. Da allora e fino al periodo romantico, il mito di Roma e della Grecia avrebbero costituito per le menti più avvertite un panorama spirituale, l’incarnazione insieme della forza della civiltà, della bellezza allo stato naturale e della saggezza primordiale.
Abbiamo visto che Gemisto e Ciriaco d’Ancona sono tra loro vicini per una quantità d’interessi comuni, ad esempio, quelli geografici, vivissimi nella Firenze medicea e umanistica. Né vale, a contestare l’esistenza di una “fratria” esoterica, come l’ha chiamata uno studioso francese [xlii], avvalendosi del termine greco che sta per “fratellanza”, evidenziare le diversità di pensiero tra l’uno e l’altro presunto adepto di esse [xliii]: le istituzioni esoteriche non danno parole d’ordine, non forniscono un’ideologia dogmatica, ma un’ideale, che ne informa la pratica e la orienta come una stella lontana per il navigatore, non danno un programma alla lettera, ma piuttosto una visione simbolica che lascia la più ampia libertà a chi la segue.
Ciriaco e Pletone, infine, si contendono tra gli storici il merito di aver portato in Italia la Geografia di Strabone e, quindi, di aver giocato un ruolo importante, seppur indiretto, nella scoperta dell’America da parte di Colombo che citò Strabone fra le sue autorità principali e che ebbe testi, lettere e carte dal fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli (1397-1482), matematico, geografo e astronomo, vicino alla famiglia dei Medici e amico sia di Pletone che di Ciriaco [xliv]. Resta indubbio il loro apporto nel progetto di “buscar l’Oriente par l’Occidente” attraverso l’Oceano, che si stava imponendo in diversi ambienti scientifici ed eruditi dell’epoca: si superano le colonne d’Ercole dell’ordine sclerotizzato, pesante, materiale, del vecchiume della Scolastica, si sperimenta la libertà e si scopre l’America.
Ma, come si è già accennato, altri progressi si compiranno: la mappa non solo geografica ma anche quella del pensiero storico e intellettuale non sarebbero più state eguali a prima. Dopo Ciriaco il passo successivo sarebbe stato che tanti, seguendo il suo esempio, si sarebbero messi a collezionare manoscritti, a scovarli, copiarli e a conservare le preziose reliquie del passato. In quest’opera di accumulazione lo seguirono i suoi amici Guarino e Filelfo, Aurispa e Poggio, aiutati dalla ricchezza dei patrizi italiani, principi-mercanti e guerrieri-mecenati che furono ispirati dal sacro desiderio della conoscenza. La conoscenza non era una ricerca di una classe particolare ed esclusiva. Era un nuovo spirito e un nuovo entusiasmo, che pervadeva tutta la società con l’intensità di un amore. Per una generazione allevata nella decadente scolastica e nelle stereotipe formule teologiche era la fonte della giovinezza che rinasceva, della bellezza e della libertà, la forma in cui l’Elena dell’arte e della poesia appariva agli occhi rapiti e in estasi di un Dottor Faust medievale. Era il risveglio, la risurrezione degli spiriti più potenti del passato, come aveva compreso Ciriaco. Questo era l’entusiasmo, questa la speranza vivificante che rese la cultura nel XV secolo così sempre in tensione, così sensibile e ardente. Gli uomini che la seguirono sapevano che stavano restituendo l’umanità al suo diritto di nascita dopo un’esilio mortale di dieci secoli. Erano istintivamente consapevoli che la loro opera era per la libertà di azione, di pensiero e di coscienza nel futuro. Quando si divenne padroni della lingua greca, dopo aver raccolto i manoscritti e le opere d’arte, si formarono biblioteche e musei in ogni luogo d’Italia e venne l’epoca della stampa e degli scrittori come Ficino, Pico, Poliziano, Pontano, Valla… L’Italia divenne la grande fucina della nuova cultura e Germania, Francia e Spagna, e poi Inghilterra, furono invitate alla sua festa.
Si sarebbe tentati di concludere che il mondo simbolico delle immagini, che Ciriaco si affannava a ritrarre, offre all’uomo il più alto grado di contemplazione dell’Essere divino che si possa conoscere. Scrive Ioan Couliano: “La cultura del Rinascimento era una cultura del fantastico; essa riconosceva ai fantasmi suscitati dal senso interno un peso grandissimo e aveva sviluppato al massimo la facoltà umana di operare attivamente su e con i fantasmi, aveva creato tutta una dialettica dell’eros […] Stabilendo il carattere idolatra, empio, dei fantasmi, la Riforma abolì d’un sol colpo la cultura del Rinascimento. E poiché tutte le ‘scienze’ rinascimentali erano edifici il cui materiale di costruzione erano appunto i fantasmi, anch’essi dovettero soccombere sotto il peso della Riforma” [xlv].
“Bisognava ridurre in cenere la fantasia delle possibili scelte verso un possibile, impossibile amore. Valgono le parole di Savonarola del 1491: «Hanno abbandonato la semplicità dei testi sacri e, alterando la parola di Dio, hanno coperto le pagine di oscurità pretenziose e di vani artifici… Raccontano favole sugli dei e sugli uomini, piene di passioni e di unioni assurde ed empie… Ma che fanno i nostri prìncipi? Perché non promulgano una legge in cui si ordini che non solo questi poeti siano esiliati dalle città ma che i loro libri e quelli degli antichi, che parlano dell’arte d’amare, delle cortigiane, degli idoli e dell’infetta e abbietta superstizione dei dèmoni, siano bruciati con il fuoco fino ad essere soltanto cenere?». Chi invoca evoca e incontrerà la sua stessa nemesi. Ma restavano altri domenicani, prìncipi della chiesa e loro braccio secolare a ravvivare le fiamme che si erano attizzate” [xlvi].
Infatti il seguito della storia, dopo la morte di Ciriaco e quella di Pletone, avvenuta lo stesso anno, è un contrappunto di incendi e di roghi, di condanne inflessibili e intransigenti dei divari e dei dissensi. Quell’unico momento d’illuminazione, rappresentato dal Rinascimento fu subito stroncato. Vale la pena mostrarlo per rapidi cenni.
La principale opera di Pletone, il trattato delle Leggi, che non era solo un libro di filosofia ellenica, ma un breviario, un catechismo e un rituale, che egli aveva tenuto segreti e che costituiva il corpus degli insegnamenti impartiti nelle sua scuola, dopo la sua morte, cadde nelle mani del suo avversario Scolario, divenuto sotto i Turchi il nuovo Patriarca di Costantinopoli con il nome di Gennadio II. Questi lo lesse con crescente orrore e poi, di fronte a dei testimoni, diede la maggior parte di esso alle fiamme in una data incerta tra il 1460 e il 1465. Sigismondo Malatesta, le cui fortune erano cresciute sotto il pontificato di Eugenio IV, e che aveva realizzato nel suo Tempio “pagano” il sacrario del pensiero di Pletone e di Ciriaco, nel 1461 fu scomunicato dal suo successore Pio II, pubblicamente canonizzato all’Inferno [xlvii] e, nell’anno seguente, bruciato in effigie a Roma, sul Campidoglio, in Campo dei Fiori e sulle scalinate di San Pietro. Nel 1496, sotto l’effimera fanatica repubblica teocratica, fondamentalista, quasi “talebana” si potrebbe dire, del domenicano Girolamo Savonarola, Firenze, in Piazza della Signoria, era punteggiata dalle fiamme “purificatrici” dei “bruciamenti delle vanità”, roghi pubblici nei quali furono bruciati non solo carte e dadi da gioco, ornamenti e vestiti lussuosi, specchi e profumi, ma libri pagani e immorali (talora bastava anche un innocente libro di poesie o una copia del Decamerone del Boccaccio o del Canzoniere di Petrarca, “disonesti, lascivi e vani”), arazzi e dipinti di nudi considerati osceni, e perfino quadri del vecchio Botticelli e del giovane Leonardo. Se accidentale fu il 14 dicembre del 1514, a Pesaro, l’incendio che distrusse la biblioteca di Alessandro e Costanza Sforza, in cui perirono i Commentaria, i taccuini di viaggio di Ciriaco d’Ancona, là conservati (ma è molto probabile che Leonardo nel 1502 li abbia visti), non altrettanto si può dire dell’incendio del civico archivio di Ancona del 1532, in cui scomparvero tra le fiamme, appiccate dalle truppe pontificie, i manoscritti donati alla città natia da Ciriaco: fu infatti l’anno in cui Ancona perse la sua autonomia di libera città ed entrò per secoli sotto il giogo dello Stato Pontificio. Del rogo di Giordano Bruno non dirò… ci è troppo noto. Bruno, si sa, è la manifestazione più elevata di quel Rinascimento “ad alta tensione” che dopo di lui si smarrisce e lentamente si dilegua, scomparendo nelle tenebre della storia, diventando parola segreta e dissimulata, dileggiata o incompresa o sospettata. La morte di questo pensatore originalissimo sembra in tal senso simboleggiare la sconfitta di una visione del mondo, che allora dovette rinchiudersi sempre di più in un luogo geografico, noto soltanto agli iniziati.
Il platonismo ellenico, il pensiero antico, la Tradizione, rientrarono allora nella clandestinità. La storia dei secoli successivi, dal Settecento ad oggi, la conosciamo meglio e possiamo ritrovare le tracce di questo pensiero nelle società segrete che nacquero nel periodo dell’Illuminismo.
Ma il mito romano difficilmente muore e quello greco ancora di più; restano le terre vagheggiate e luoghi di utopiche rinascite, Roma e la Grecia sono davvero l’Utopia retrospettiva in cui uomini come Ciriaco, instancabili viaggiatori sotto ogni senso, dal tempo del Rinascimento fino a un’epoca molto più tarda, videro la realizzazione dei loro ideali, sede di tutte le virtù e unico ricettacolo dell’intelligenza umana. Come avvertiva un altro grande marchigiano, e grande italiano, Leopardi, noi siamo noi quanto più guardiamo indietro ai nostri padri antichi e antichissimi. Difatti, come ci spiegava la scuola di Mistrà e c’illustra Ciriaco i principii di sapienza sembrano suonare piú efficaci se ascoltati e veduti dalla voce e nella figura stessa dei padri antichi.
Con quello stesso senso profondo di fraternità spirituale che ricondusse alla tradizione degli antichi, uomini come Ciriaco, che vi tornarono con lo stesso impaziente e rispettoso affetto con cui i figli ritornano, dopo lunga assenza, alla casa paterna, pertanto, in un’Europa alla ricerca di radici e riferimenti comuni, la cultura greca o greco-romana è incontestabilmente il solo patrimonio che tutte le nazioni possono rivendicare con una stessa sola reverente voce ed è per ciò che dobbiamo ricordare e rendere omaggio a Ciriaco d’Ancona, la dorica Ancona.

 


* Elaborazione di una Tavola/Conferenza tenuta al Collegio “Dorium Limen” all’Oriente di Ancona nella Tenuta dei Lavori del 20 marzo 2006 E\V\.
[i] Ciriaco de’ Pizzecolli si firmava solitamente come Kyriacus Anconitanus de Picenicollibus (che si potrebbe tradurre come “Ciriaco Anconitano dai Colli Piceni”, abbreviato in K.A.P. o in K.A. come era uso siglare le sue casse di merci e reperti) o, qualche volta, durante i suoi ultimi anni come KuriakÒw ı §j ‘Ank«now.
[ii] La maggior parte del patriziato anconitano era dedito alla mercatura.
[iii] Secondo quanto riferisce Francesco Scalamonti nella Vita Kyriaci.
[iv] Giaurro, termine che ha avuto ampia diffusione dopo la pubblicazione del poema di Byron, The Giaour (1813), è un arabismo di origine turca più che araba. La voce, dal turco gâurgâvur, in origine indicava un seguace della religione zoroastriana, poi divenne il termine con cui i turchi ottomani designavano spregiativamente chi non era musulmano, specialmente i cristiani, prendendo infine il significato generico di “infedele”, “pagano”. Questa voce si ritrova occasionalmente in testi antichi veneziani già nel XVI sec. ad indicare i non musulmani.
[v] L’umanista e poeta Tommaso Seneca (Camerino 1390 – 1472), celebre come professore, ha lasciato numerosi scritti che ci sono pervenuti. L’anno della sua morte svolgeva ancora la professione di grammatico a Rimini. È soprattutto celebre per una tenzone letteraria. Nel 1455 o 1456 Tommaso Seneca da Camerino (che già nel 1440 si trovava a Rimini quale segretario di Sigismondo Malatesta e vi dimorò saltuariamente fino alla sua morte) fu protagonista a fianco del poeta e avventuriero napoletano Porcellio Pandoni e contro Basinio da Parma (tutti poeti della corte malatestiana) di una singolare e animosa controversia, tipica del Rinascimento. L’aspra diatriba verteva sul fatto se la conoscenza del greco fosse importante per i cultori del latino. La tesi di Seneca e Porcellio era che “si poteva essere un elegante poeta latino senza impallidirsi sopra gli autori greci”. La controversia, di cui fu giudice Sigismondo Malatesta, fu vinta dalla replica improvvisata di Basinio e diede occasione a diversi scritti. Sull’episodio e su Seneca da Camerino vedi FERRUCCIO FERRI, Una contesa di tre umanisti. Basinio Porcellio e Seneca. Contributo alla storia degli studi greci nel Quattrocento in Italia, Tip. Succ. Fratelli Fusi, Pavia 1920; in sintesi: CHARLES YRIARTE, Rimini: un condottiero del XV secolo: studi sulle lettere e le arti alla corte dei Malatesta secondo le carte di Stato degli archivi d’Italia; con 200 disegni dai monumenti del tempo, trad. dell’ed. parigina del 1882 di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini, 2003, p. 236 e p. 395; Augusto Campana, Basinio da Parma, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 7 [Bartolucci-Bellotto], Istituto della Enciclopedia italiana Roma, 1965, pp. 89-98, a p. 92.
[vi] Ciriaco non era un erudito della lingua: quando desiderò apprendere il latino, assunse Tommaso Seneca ad Ancona per aiutarlo a leggere Virgilio e non si preoccupò molto della grammatica. In seguito scrisse quasi sempre in Latino — i suoi diari e le sue lettere sono in questa lingua — ma in un latino in qualche modo peculiare. Poggio Bracciolini ha scritto del suo stile “Graeca plurima latinis mixta, verba inepta, latinitas mala, constructio inconcinna, sensus nullus…” ma Ciriaco lo aveva criticato pubblicamente (cfr. infra nota 16). In realtà una lettura accurata dei suoi testi dimostra invece che, nonostante il suo peculiare stile di scrittura, certamente conosceva i rudimenti della grammatica. Le sue frasi, spesso straordinariamente complesse, sono di solito grammaticalmente costruite (e quando non lo sono, le imperfezioni possono essere attribuite di solito a un errore dei copisti, considerando i pochi testi autografi che ci sono pervenuti); aveva inoltre sulla punta delle dita un vocabolario molto più esteso di quanto comunemente si pensi. I primi tempi, non riusciva a leggere le iscrizioni greche che aveva ricopiato e allora, durante una sosta a Cipro, cominciò ad imparare la lingua greca leggendo Omero.
[vii] GEORG VOIGT (1968), p. 271.
[viii] Famiglia ghibellina di Genova che aveva costituito nel 1349 la maona (società mercantile) nuova di Chio. I Giustiniani di Genova ebbero anche una solida sede commerciale nella città fiamminga di Bruges.
[ix] Pur non essendo una potenza marinara, come Genova, Venezia o la catalana Barcellona, significativa è la presenza di Ancona, anche in quel periodo. Tra i capitani della navi su cui è imbarcato per Costantinopoli o per l’Ellesponto, di Ancona Ciriaco ricorda un Benvenuto Scottivoli e un Tommaso Blasi. Si può vedere in ciò, in controluce, l’impronta più caratteristica dell’economia della città marchigiana, innervata su un ceto economico e sociale mercantile volto al Levante.
[x] E viceversa. Si sa che Ciriaco riportò dall’Oriente al papa Eugenio IV, che lo patrocinò e finanziò per tutto il suo non breve pontificato (1431-1447), nuovi manoscritti del Testamento greco e gli fu commissionato di confrontare questi testi con la traduzione della Vulgata; si tratta di uno tra i primi esempi dell’applicazione di nuovi metodi negli studi biblici.
[xi] Kyriaci Anconitani Itinerarium, p. 21.
[xii] Per il periodo dei suoi ultimi viaggi, che lo portarono dall’Italia alle coste orientali dell’Adriatico, al continente greco, alle isole egee, nella Turchia anatolica e nella Tracia, sul Monte Athos, a Costantinopoli, nelle Cicladi e a Creta, vedi (2003), EDWARD W. BODNAR con CLIVE FOSS (a cura di e trad.). Il volume presenta le lettere e i diari dal 1443 a 1449. I resoconti dei suoi viaggi, con il loro commento che riflette i suoi larghissimi interessi antiquari politici religiosi e commerciali, forniscono un affascinante ricordo dell’incontro del mondo rinascimentale con il retaggio dell’antichità classica. I testi latini raccolti in questa edizione sono stati solo recentemente pubblicati e la maggior parte di essi compaiono per la prima volta nella loro traduzione inglese. L’edizione è arricchita da alcune riproduzioni degli schizzi di Ciriaco e da una cartina dei suoi viaggi.
[xiii] Andreolo Giustiniani (1385-1456), erudito e poeta (fu autore della storia in versi latini della guerra contro Venezia del 1431), signore di Chio, mercante, aveva raccolto una biblioteca di 2000 volumi e fornito libri e testi agli umanisti contemporanei, Poggio Bracciolini in particolare, con cui era in costante rapporto.
[xiv] Il manoscritto sopravvive all’interno degli incunaboli e libri della biblioteca di Bessarione donati alla Repubbica di Venezia che costituiscono il nucleo iniziale della Marciana, così come i manoscritti dei Medici, alcuni certamente acquistati da Ciriaco, divennero il nucleo della Laurenziana di Firenze.
[xv] La statua fu trafugata nel 1687 dall’ammiraglio Francesco Morosini e oggi è posta all’entrata dell’arsenale di Venezia.

[xvi] Ciriacus Anconitanus, homo verbosus et nimium loquax, deplorabat aliquando, astantibus nobis, casum atque eversionem Imperii Romani, inque ea re vehementius angi videbatur. Tum Antonius Luscus, vir doctissimus, qui in coetu aderat, ridens hominis stultam curam… (Poggi Facetiae, 82 Comparatio Antonii Luscied. I. Liseux, Paris, 1879). In una lettera il Poggio definisce Ciriaco asinus bipedalis, “asino a due zampe” (Lettere, a cura di Helene Hart, Leo S. Olschki, Firenze 1984-87, vol. 2, Epistolarium familiarum libri / Poggio Bracciolini, p. 299. Ma i rapporti tra i due (cfr. supra nota 5) si erano notoriamente deteriorati allorché Ciriaco, in una controversia che il Poggio ebbe con Guarino Veronese sul tema della superiorità di Scipione e di Cesare, prese le parti del suo avversario. Sulla controversia, una delle tante del periodo rinascimentale (cfr. anche supra nota 5) e densa di implicazioni politiche tra una scelta repubblicana e monarchica, vedi DAVIDE CANFORALa controversia di Poggio Bracciolini e Guarino Veronese su Cesare e Scipione, Leo S. Olschki, Firenze, 2001.

[xvii] “Poco dopo sorsero collezioni di antichità di ogni specie. Ciriaco d’Ancona percorse non solo l’Italia, ma anche molti altri paesi dell’antico orbis terrarum, e ne riportò in grande copia iscrizioni e disegni; interrogato perché s’adoperasse tanto, rispondeva: per risuscitare i morti” (JACOB BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, Newton & Compton Editori, Roma, 2000, p. 147).
[xviii] Fu proprio Feliciano a trasmetterci la vita di Ciriaco, scritta, quand’era ancora in vita, dal suo concittadino Francesco Scalamonti, nel codice della Capitolare di Treviso (cfr. Bibliografia sotto Colucci, Giuseppe,). CHARLES MITCHELL, “Felice Feliciano Antiquarius” (in Proceeding of the British Academy for the promotion of historical, philosophical and philological studies XLVII, 1961, pp. 197-221), p. 197, ritiene Feliciano discepolo di Ciriaco d’Ancona, basandosi sulla sua stessa dichiarazione di essere “autentico seguace ed erede spirituale” di Ciriaco. L’amicizia tra il copista Feliciano e il pittore Mantegna, entrambi appassionati di antiquaria, spiega l’influenza dei disegni dell’anconitano sul pittore.
[xix] I rapporti con le corti malatestiane di Rimini e di Cesena, che Ciriaco visitò per la prima volta nel 1423, sono inoltre attestati attraverso la conoscenza di Giovanni di Marco da Rimini, medico curante del signore cesenate Malatesta Novello e amante delle antichità e dei libri che donò alla Malatestiana di Cesena. Il medico umanista accompagnò Ciriaco nella sua visita a Rimini del 1435 (vedi ORESTE DELUCCA, “Fonti biografiche per Giovanni di Marco” in La biblioteca di un medico del Quattrocento. I codici di Giovanni di Marco da Rimini nella Biblioteca Malatestiana, a cura di Anna Manfron, Comune di Cesena – Istituzione Biblioteca Malatestiana, U. Allemandi stampa, Torino, 1998, pp. 39-68 in p. 46). La seguente visita a Rimini è, appunto del 1449.
[xx] Vedi sull’argomento AUGUSTO CAMPANA, Ciriaco e l’elefante malatestiano in (1998) GIANFRANCO PACI e SERGIO SCONOCCHIA (a cura di), pp. 198-200. Gli interventi di Ciriaco sono anche certamente all’origine delle due grandi e gemelle epigrafi celebrative in caratteri greci apposte sulle fiancate del Tempio Malatestiano, primo esempio di quel tipo nella cultura umanistica del periodo. Ulteriori indagini consentirebbero di scoprire l’influenza degli schizzi ciriacani e i suoi suggerimenti in altre sculture del Tempio riminese, come si può ravvisare dal confronto per esempio del bassorilievo del Capricorno nella Cappella dei Pianeti o di quello della cosiddetta Concordia nella Cappella delle Arti — modello tra l’altro anche della sesta lama, chiamata degli Innamorati, degli Arcani Maggiori dei Tarocchi Visconti-Sforza (1441-1447 circa) —, rispettivamente con gli schizzi ciriacani di un bassorilievo di Pan a Taso e di una lapide romana a Agios Ioannis di Keria, nel Mani peloponnesiaco.
[xxi] Ora alla Galleria degli Uffizi.
[xxii] Vedi nella 2° ed. italiana citata nella Bibliografia su Ciriaco, con presentazione di Delio Cantimori, specialmente p. 30, p. 118, p. 124, pp. 131 sgg., pp. 541 sgg. Da notare che l’episodio dell’entrata di Ciriaco a fianco del sultano Mehmed II è dato per certo anche da ROBERTO WEISS (1966), p. 366.
[xxiii] Vedi JULIAN RABY (1981), pp. 242-246 e spec. p. 245; nonché il chiarimento definitivo di CHRISTOS G. PATRINELES (1968). Illuminante nei confronti di Babinger è il saggio di GIORGIO VERCELLIN, “Ciriaco d’Ancona e il Turco in Ciriaco d’Ancona e il suo tempo (2002), p. 103-126, in part. pp. 103-107.
[xxiv] Cosimo de Medici fu sicuramente il suo più munifico finanziatore. Grazie a Ciriaco aveva raccolto cammei, rilievi e sculture. Ma niente resta della raccolta antiquaria di Cosimo il Vecchio, andata dispersa assieme alle raffinate raccolte di Lorenzo il Magnifico con la cacciata da Firenze di Piero II de Medici nel 1494.
[xxv] Cfr. EDWARD W. BODNAR con CLIVE FOSS (2003): xiv-xv.
[xxvi] Artium, mentis, ingenii facundiaeque pater, alme Mercuri, viarum itinerumque optime dux… (Benefico Mercurio, padre delle arti, dell’ingegno e dell’eloquenza, duce ottimo delle vie e dei viaggi…).
[xxvii] Cfr. JEAN COLIN (1981) pp. 214 sgg. e pp. 317 sgg.
[xxviii] GIORGIO VERCELLIN, Op. cit., pp. 113-114.
[xxix] Vedi C.M. WOODHOUSE (1986), p. 165: “… he [Cyriac] was at heart a pagan, like Gemistos…” e p. 228: “Ciryac was… a fellow pagan”.
[xxx] Sull’unico momento di illuminazione sincretista, rappresentato dal Rinascimento, vedi ELÉMIRE ZOLLA, Il sincretismo e un suo esempio in Uscite Dal Mondo, Adelphi, Milano, 1992, pp. 59-65.
[xxxi] Vedi LUDWIG BERTALOT e AUGUSTO CAMPANA (1939), p. 374; LUDWIG BERTALOT (1975)pp. 329 sgg.
[xxxii] MARSILIO FICINO, Opera Omnia, ex officina Henricpetrina, Basileae, t. II, p. 1537 (Ripr. anast. Bottega d’Erasmo, Torino, 1983).
[xxxiii] Vedi specialmente FRANCES A. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma, 2000.
[xxxiv] … cum… inde Gemistei platonici dilectissiminostri nostri gratia Laconicam Mysitratem revivissem… (quando … sono ritornato nella laconica Mistrà allo scopo di vedere il carissimo platonico Gemisto…).
[xxxv] GIORGIO DI TREBISONDA DETTO TRAPEZUNZIO, Comparationes philosophorum Aristotelis et Platonis, 1458.
[xxxvi] Cfr., per esempio, la voce “Massoneria” in LUIGI TROISI, Massoneria universale: dizionario; introduzione di Aldo A. Mola, SugarCo, Carnago, 1994, p. 144 “È opinione diffusa che la Massoneria speculativa nell’elaborare i suoi princìpi si sia ispirata anche, come abbiamo accennato innanzi, ad altre associazioni come le Accademie, fiorenti durante l’evo moderno, a partire dall’umanesimo, quando il lavoro intellettuale, a livello industriale, risultò insufficiente per organizzare e sistemare l’abbondantissimo materiale raccolto dagli umanisti. Ed è proprio in queste associazioni che fioriscono e si irrobustiscono dottrine incentrate sulla tolleranza e sul pluralismo delle idee in tutti i campi (in primo luogo in quello religioso)”. Sull’argomento resta in ogni caso fondamentale il succitato libro della Yates.
[xxxvii] Del sonetto esiste una traduzione in greco attribuibile a Gemisto Pletone; cfr. FRANÇOIS MASAI (1956) n. 4 in p. 72.
[xxxviii] Già François Masai che si è occupato dello speciale platonismo di Pletone si chiedeva se queste Accademie “non fossero, in qualche modo, delle filiali di quelle di Mistrà”. Chi conosce il funzionamento delle società esoteriche e delle trasmissioni iniziatiche, nel loro scorrere come un fiume carsico, sa che difficilmente se ne può determinare l’estensione ed è nota la loro feracità, per cui formano rami e colonie, e qualora se ne vogliano seguire le tracce, ci si perde in un labirinto.
[xxxix] Cfr. ROBERTO WEISS (1988), che mette in luce la curiosa mescolanza nel Rinascimento tra la meticolosa cura antiquaria e la falsificazione.
[xl] Cfr. VIRGILIO, Eneide IV, 242-245.
[xli] CARL GUSTAV JUNG, The Collected Works of C.G. Jung, Vol. XIII: Alchemical Studies, par. 54, Routledge & Kegan Paul, London, 1967; trad. it. Il segreto del fiore d’oro: un libro di vita cinese, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
[xlii] Il Masai, testé citato, nel § 3 del cap. vii, “La Phratrie des Hellènes”, pp. 300-314.
[xliii] Ci riferiamo in particolare alla tesi esposta da JOHN MONFASANI, “Platonic Paganism in the Fiftteenth Century” in Reconsidering the Renaissance: Papers from the Twenty-First Annual Conference, a cura di Mario A. di Cesare, Medieval & Renaissance Texts & Studies, Binghamton (N.Y.), 1992, pp. 45-61.
[xliv] L’argomento è veramente complesso e richiederebbe un articolo a parte. Si discute se la Geografia di Strabone, fino allora sconosciuta in Occidente, fu trasmessa da Pletone in occasione del suo soggiorno fiorentino oppure da Ciriaco che l’aveva copiata da un manoscritto di Pletone durante il suo ultimo soggiorno a Mistrà nell’inverno del 1447-1448. Il caso è ancor più complicato perché tra gli storici si dibatte ancora circa l’autenticità delle lettere di Toscanelli a Colombo. Resta il fatto che il testo di Strabone fu stampato fin dal 1469 a Roma e ripubblicato quattro volte, a Venezia e ancora a Roma, prima del 1500. La versione in latino era di Guarino Veronese che per questa traduzione avrebbe ricevuto 1500 scudi d’oro dal Cardinal Bessarione.
[xlv] JOAN PETRU COULIANO, Eros e magia nel Rinascimento : la congiunzione astrologica del 1484, prefazione di Mircea Eliade, trad. it. di Gabriella Ernesti, Il saggiatore, Milano, 1987, p. 284.
[xlvi] MORENO NERI, “Antonio Beltramelli e il Tempio Malatestiano tra eros e airesis” in appendice a ANTONIO BELTRAMELLI, Un Tempio d’Amore, illustrazioni di Francesco Nonni, (ripr. facs. dell’ed. 1912), Raffaelli Editore, Rimini, 2004, pp. 93-94.
[xlvii] “Fino ad ora, nessun mortale è stato solennemente canonizzato all’Inferno. Sigismondo sarà il primo uomo degno di questo onore. Per editto del Papa, sarà condannato alla città infernale dove si unirà ai dannati e ai dèmoni. Né aspetteremo la sua morte, perché non vi è alcuna possibilità di un suo pentimento. Egli è con ciò condannato, mentre è ancora vivo, all’Orco e al fuoco eterno” (PIO II, Commentarii, V).
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