Giornalista, origini belghe, esperta di food e profonda conoscitrice dell’entroterra marchigiano e delle sue caratteristiche sociali ed economiche.
Sono un esempio di come i confini tra ius soli, ius sanguinis, ius scholae e ius culturae siano solo dei pretesti per cattivi pensieri. Sono una cittadina nata in un Paese, che vive in un altro e ragiono solo dove mi porta il buon senso e il cuore.
Forse perché l’emigrazione la conosco. Sono figlia del “Manifesto rosa”, dell’accordo De Gasperi-Van Acker, dello scambio carbone-minatori e di un babbo coraggioso sceso a 18 anni a 800 metri sotto terra nel 1949 che si è innamorato della Cité Ardente dove tuttora vive. Il che mi fa fare regolarmente la spola tra gli aeroporti di Ancona e Bruxelles Sud. Sono quindi nata nel 1964, gli anni dove la conquista sociale passava dal percorso scolastico. Sono orgogliosa del mio percorso nelle scuole cattoliche ma altrettanto di aver scelto di laurearmi in Journalisme et Sciences dell’informazione e aver preso un master in Sciences Politiques all’Institut Européen alla Libre di Bruxelles, un diploma universitario delle candidature en droit all’Université de Liège in tasca. Un percorso che sottolineo perché i miei arrivati con una valigia di cartone ne sono troppo orgogliosi e mi ha dato quel bagaglio giusto per poter lavorare ovunque. Soprattutto dopo aver sedotto e sposato l’unico amore della mia vita che mi ha trascinato nelle terre della mia famiglia tra l’anconetano, il pesarese.
Il percorso professionale?
Per diversi anni sono stata il corrispondente di stampa di quotidiani belgi in Italia. Poi, dopo una bella parentesi nella gestione del marketing di aziende di prodotti tipici, l’ideazione di piani di marketing strategico territoriale per i fondi europei dei Gal, un’esperienza come docente universitaria a Bari nella comunicazione delle Scienze gastronomiche, sono riuscita a lavorare sul doppio binario delle consulenze e dell’informazione. Quella che racconta con autenticità le leggende personale. Chi fa che cosa, perché, dove e come. Perché è così che interpreto qualsiasi tipo di cronaca, a maggior ragione per il mondo dell’agroalimentare. Sono anche un analista presso agenzie europee che trattano di economia, agricoltura e food; scrivo per portali di servizi turistici e guide. Per farmi arrabbiare basta dire che sono un food writer. Non lo sono perché non mi limito mai ad un storytelling legato alle emozioni ma il mio ruolo è contestualizzare l’azienda, l’uomo, il suo saper fare, le sue conoscenze, il suo prodotto nel tessuto sociale di ieri e di oggi, identificare limiti e opportunità alla luce dell’evoluzione delle tecniche e delle tecnologie. Ma credo che il mio vero punto forza è che sono arrivata 35 anni fa come Candido di Voltaire e amo esserlo per poter ovunque vada meravigliarmi della bellezza, del patrimonio e dell’ingegno.
Qual è il tuo legame con le Marche? Come lo descriveresti?
Di profondo amore e rispetto. Non c’è stato un giorno in cui mi sono pentita di essermi trasferita. Le Marche sono davvero l’Italia in una Regione che tuttavia non sono mai riuscita a capire perché tuttora continua di peccare per eccesso di pudore e continua a lasciare il campanilismo di troppi frenare l’intera regione.
Tu hai fondato un quotidiano che focalizza le storie dei piccoli centri dell’entroterra. Da giornalista, come puoi descrivere la società marchigiana?
È proprio per aiutare a superare questi campanilismi e favorire l’unione che è stata ideata www.civetta.tv che ha l’ambizione di creare un legame tra piccole comunità di cui non si parla abbastanza.
Quali sono le caratteristiche che più ti hanno colpito e che ti colpiscono ancora oggi?
L’ingegno, il senso della bellezza, la capacità di saper interpretare quello di cui hanno bisogno le varie comunità. C’è sempre qualcosa dell’ingegno marchigiano in qualsiasi paese dove si va.
Quello tra le Marche e il Belgio dal secolo scorso è un legame fatto di emigrazione e di storie di duro lavoro. Esiste ancora il legame di questa comunità in Belgio?
Si. Il turismo delle radici esiste. L’orgoglio di essere italiano anche.
Ti occupi spesso di economia e hai seguito i casi più importanti delle aziende marchigiane nel bene e nel male. Cosa pensi dell’attuale situazione economica e dell’imprenditoria marchigiana?
Che sono in tanti a capire che il marchigian way of life è un vero punto forza su cui fare leva ma non lo è più il modello economico marchigiano. Che ci sono persone che hanno capito che siamo in grado di accompagnare la “distruzione creativa” ma vanno assolutamente ascoltate e supportate. Quel grande cambiamento raccontato dal Rettore dell’Università di Urbino, Giorgio Calcagnini, dove nasce un nuovo mercato da cui escono le imprese marginali, emergono quelle migliori, più efficienti, con capacità di crescita e di sviluppo in grado di meglio competere al livello internazionale poiché uniscono tradizioni e vere innovazioni su cui hanno la capacità finanziaria e gli uomini per fare da volano ad interi distretti. Vale per il biologico, penso ad Arca, l’agricoltura rigenerativa, alla moda, penso a collezioni con nuovi materiali, stilisti, alla farmacia alla nutraceutica, dai macchinari per la produzione alla navigazione di lusso, dai mobili ai gioielli.
Sei spesso in viaggio tra le Marche e il Belgio… Come sono le Marche viste dal Belgio?
Sconosciute
Cosa porti con te dalle Marche per i tuoi amici in Belgio?
Le nostre borse e scarpe, i vini Doc, il Varnelli, il gin, il vino di visciola, anche le birre artigianali, il tartufo fresco tutto l’anno, i salumi.
Un sogno per il futuro delle Marche?
Che tutti salgano sul campanile e viaggino con il brand Marche che con il suo plurale fa da ombrello a tutti. Perché senza quel brand non riusciremo mai a dare quella indispensabile nuova dinamicità di cui ha bisogno la nostra regione per uscire dal regime di transizione, per attrarre aziende e creare posti di lavori, conquistare nuovi residenti ed imporsi nella nuova organizzazione economica mondiale.