(di Paolo Volponi)
La nemica natura che mi resta,
l’immagine di Urbino
che io non posso fuggire,
la sua crudele festa,
quieta tra le mie ire.
Questo dovrei lasciare
se io avessi l’ardire
di lasciare le mie care
piaghe guarire
Lasciare questo vento collinare
che piega il grano e l’oliva,
che porta sbuffi di mare
tra l’arenaria viva.
Lasciare questa luna tardiva,
sul diamante degli edifici,
questa bianca saliva
su tutte le terrazze,
dove amici e ragazze
stendono le soffici tele
del loro amore infedele.
Lasciare il caldo respiro
del sole sulle mura,
la lunga tortura delle case,
lo stesso temporale
che ritorna da anni,
pur se la mia vita non è uguale nel giro
e s’abbandona ogni ora.
Antica sulle mura
è la mia casa;
immobile e non sicura
sembra veleggiare
tra le nuvole come riviere
nel fluviale nembo
delle selvagge sere
Il cielo a forma di grembo
divora la città;
allora si sente morire
ogni cosa dintorno
e ognuna sta per soffrire
dal proprio cuore
E’ il vento, al confine del giorno,
che mormora tra i colli,
che a me di fronte sgombra la campagna
o con la nera ombra delle nubi
la fa sparire
che con me giuoca
fingendo di fuggire
e poi con aria fioca
torna a imbiancare i colli
Il vento d’incerta natura
che passa come un ragazzo
dietro le siepi o le mura,
senza niente,
come chi si allontani di un passo
o per sempre;
niente più di un rimorso
e d’un sorso d’acqua nei campi
La città trema nel cuore dei suoi cortili,
apre il suo dorso alle congiure vili
del tempo, e giace morente
sopra di noi
Allora i giardini pensili
piegano l’ombra ostile dei pini
verso quel punto dell’orizzonte,
nuovo ogni sera,
dove io non giungerò mai
libero dai cattivi pensieri,
dalla sorte nemica
che il mio amore castiga.